Un mese fa Seydour Keita, centrocampista del Barcellona, segnò il rigore decisivo nella partita contro il Gabon, che proiettò il Mali alle semifinali della Coppa d’Africa. Ai cronisti disse di non avere nulla di cui esultare, perché la sua patria aveva altri pensieri rispetto dal calcio, la guerra civile tra il governo di Bamako e i ribelli tuareg, che chiedono l’autodeterminazione
Più di 100.000 persone hanno già dovuto abbandonare le loro case nel Nord del Paese, teatro del conflitto. Keita aveva fatto un accalorato appello per la pace, ma la prospettiva appare lontana, perché nella no man’s land del Sahara Occidentale, tra l’Algeria, lo stesso Mali, il Ciad, la Mauritania e il Niger, si intrecciano movimenti secessionisti, integralisti islamici e trafficanti di droga, in una miscela che la fine della guerra in Libia ha reso ancora più esplosiva.
Rossella Urru, la cooperante italiana rapita lo scorso 23 ottobre, assieme a due colleghi spagnoli in un campo di profughi Saharawi, nel sud dell’Algeria, si trova coinvolta in questo magma confuso. Il sequestro è stato rivendicato dl “’Movimento Unicità e Jihad nell’Africa dell’Ovest”, una costola di Al Qaeda per il Maghreb islamico (Aqmi). La scorsa settimana Al Jazeera aveva annunciato la sua liberazione, ma la notizia è stata successivamente smentita.
La battaglia dei tuareg si svolge nella stessa zona in cui opera Aqmi, ma i ribelli negano l’alleanza con i qaedisti. «Paragonarci ai fondamentalisti è assurdo», ha detto un portavoce del Movimento di Liberazione Nazionale Azawad al quotidiano algerino el-Watan. «Non abbiamo né interessi né politiche in comune con l’organizzazione terrorista». Il governo maliano non la pensa allo stesso modo. A fine gennaio, dopo un attacco vittorioso dei ribelli ad Aguelhok, la città fu teatro di esecuzioni sommarie di chiara marca qaedista.
Serge Daniel, giornalista autore del saggio «Aqmi, l’industria del rapimento», spiega: «I tuareg sono nomadi, si spostano in continuazione, ma è vero che condividono con i qaedisti, più o meno, lo stesso territorio, in particolare il Nord del Mali. Loro sostengono di essere i soli ad affrontare Aqmi, ma non credo che possano realmente combattere su due fronti, l’esercito regolare e i fondamentalisti». Secondo Daniel, la questione dei tuareg ha portato a uno scontro tra Parigi e Bamako: «I politici e i media maliani ritengono che la Francia sostenga i ribelli, perché è convinta che siano una forza contrapposta ai qaedisti. Il Quai d’Orsay replica che è il Mali a non fare abbastanza contro i terroristi». La conseguenza è la progressiva creazione di un territorio senza legge. «Le popolazioni locali si sentono abbandonate. Nel deserto al confine tra Mali e Niger i villaggi si sono spopolati. La rarefazione del turismo ha portato disoccupazione. La verità è che Aqmi è presente laddove lo Stato è assente. Per combattere i fondamentalisti, c’è bisogno anzitutto di un programma di sviluppo dell’intera regione».
A questo quadro di arretratezza economico-sociale si aggiungono le conseguenze della guerra di Libia. Nel Sahara l’intervento occidentale è stato mal digerito, anche perché Ghedddafi ha foraggiato per anni i movimenti di liberazione. Nel 2008 non pochi tuareg si sono rifugiati in Libia dopo la repressione della loro rivolta contro il potere centrale di Bamako. E molti di loro hanno raggiunto Tripoli lo scorso anno per partecipare alla difesa della Jamahiriya.
La fine dell’intervento Nato ha comportato il loro ritorno in patria. Lo scoppio della guerra civile maliana, nel gennaio di quest’anno, ne è una diretta conseguenza. Il Niger teme che l’effetto domino si trasferisca al proprio territorio. A Niamey opera un movimento affine a quello di Bamako, il Mnj, protagonista di una ribellione – sconfitta – nel biennio 2007-2009. Il ministro degli Esteri nigerino, Mohammed Bazoum, punta l’indice contro i vicini: «Tutti sapevano che cosa sarebbe successo, perché erano consapevoli del fatto che Aqmi fosse presente nella regione e che la rivolta tuareg del 2008 non fosse stata del tutto decapitata. Eppure il Mali non ha fatto nulla per combattere il problema».
Nel settembre del 2011 alcuni combattenti del Niger hanno scortato l’ingresso nel Nord del Paese di Saadi Gheddafi e l’atteggiamento di Niamey è spesso ambiguo. Ma il governo rivendica di avere aver preso di petto la questione secessionista, cooptando al potere alcuni capi della rivolta. Lo stesso premier nominato nell’Aprile 2011, Brigi Rafini, è un tuareg, nativo della regione di Agadez.
Il Niger sta cercando di costruire un fronte comune dei Paesi del Sahel, in modo da affrontare una questione resa ancora più calda dal conflitto libico. La guerra civile, infatti, ha messo sul mercato una massa impressionante di armi, che attendono solo di essere vendute al miglior offerente. Nel corso di un vertice, Algeria, Mali, Ciad, Mauritania e Niger hanno deciso di triplicare il numero di uomini da destinare all’emergenza, passando da 25.000 a 75.000 nel prossimo anno e mezzo.
L’alleanza tra tuareg e qaedisti costituirebbe un problema serio per l’Occidente. Gli Stati Uniti, impegnati nel pattugliamento dei cieli sahariani, hanno preso coscienza della situazione, ma si trovano di fronte alle resistenze dei singoli Stati, impegnati a difendere la loro sovranità dalle accuse di interferenze straniere. Il vero obiettivo di Aqmi, secondo Daniel, è la presa del potere in Mali. Il Sahel potrebbe diventare il nuovo santuario dei fondamentalisti, dopo l’Afghanistan e lo Yemen. Ragione per cui l’intervento dei droni – il cui utilizzo è stato difeso martedì dal ministro della Giustizia americano, Eric Holder, davanti agli studenti della Northwestern University di Chicago – non è affatto da escludere.