Un impegno concreto: salvare la Rai da se stessa (e dalla politica)

Un impegno concreto: salvare la Rai da se stessa (e dalla politica)

Nelle ultime settimane la situazione della Rai è balzata al centro del dibattito politico, in parte per la crisi che l’attraversa, in parte per la vicina scadenza del consiglio d’amministrazione. L’azienda televisiva pubblica è uno dei punti di precipitazione delle diverse peculiarità che caratterizzano il mercato televisivo italiano e dell’equilibrio, allo stesso tempo precario e perverso, che lo caratterizza. Occorre avere però consapevolezza del fatto che un intervento in profondità sulla Rai non è facile e implica scelte economiche di lungo periodo che esulano dalle competenze degli amministratori. Vorrei solo segnalare alcuni punti che testimoniano questa complessità.

La politica invadente

Sebbene in molti paesi europei la politica sia presente nei servizi pubblici televisivi, in Italia la sua presenza è estesa, pervicace e di basso profilo professionale. Occorre però dire che non basta cambiare il sistema di nomina degli amministratori o mettere persone nuove. Negli ultimi vent’anni si sono avvicendate diverse modalità di designazione del consiglio e alcune innovazioni organizzative, ma la situazione è rimasta invariata. I segretari dei partiti nominano i consiglieri e in seguito partecipano alla scelta dei principali dirigenti. Ridurre l’influenza della politica richiederà un lavoro lungo e meticoloso volto a scogliere intrecci e modificare incentivi: purtroppo non c’è nessun nodo gordiano a disposizione per atti risolutivi. Nel tempo si sono accumulati interi strati di manager e giornalisti selezionati prevalentemente per appartenenza e per vicinanza a politici o boiardi. Modificare i comportamenti quotidiani coalizzati di questi soggetti richiede pazienza, competenza televisiva e potere sufficiente per resistere ai loro protettori. Naturalmente si possono fare operazioni utili di manutenzione che eliminino le follie più vistose come un consiglio di amministrazione che si riunisce una o due volte la settimana e discute di dettagli artistici. O limitare la brutta abitudine per cui dirigenti e giornalisti si rivolgono al loro consigliere di riferimento.

Da diverso tempo la Rai è in una situazione pre-Alitalia, un’azienda paralizzata dai veti incrociati, bloccata dalle incertezze strategiche, dove ogni decisione importante viene rinviata, che va avanti pensando di non poter crollare mai. Al di là di ciò che è scritto di anno in anno sui bilanci, i costi salgono per effetto della concorrenza e dell’impossibilità di fare qualunque ristrutturazione, mentre i ricavi pubblicitari si sono contratti a causa della crisi e il canone non può crescere più dell’inflazione. Far pagare il canone con la bolletta elettrica azzererebbe l’evasione, oggi al 25 per cento contro una media europea del 7-9 per cento) e darebbe respiro per alcuni anni, ma non risolverebbe i problemi strutturali di equilibrio.
I processi interni e le divisioni del lavoro sono costruiti su tecnologie che ormai stanno scomparendo e la macro organizzazione con reti e testate che sono fortini verticali semi indipendenti risale agli ultimi anni della prima repubblica.

Ristrutturare la Rai vuol dire incidere profondamente su tutte queste incrostazioni. Alcuni interventi su note spese, doppi lavori, burocrazie autoreferenziali sono facilmente individuabili, ma per altri ci vuole visione strategica. Che fare ad esempio delle sedi regionali, costruite come piccole televisioni, e difese strenuamente dai politici locali? Oppure occorrerà affrontare il problema dei 1.700 giornalisti divisi in testate con un’integrazione verticale completa, senza alcuna sinergia tra loro, con una presenza scarsa sulle nuove tecnologie e con il costo del lavoro più alto di qualsiasi altro editore italiano per via della dissennata politica di promozioni a ogni cambio di governo e di consiglio d’amministrazione. Negli altri paesi europei se una televisione ha più di un canale, c’è generalmente un unico responsabile dell’informazione con funzioni prevalentemente manageriali e si tende a costruire una newsroom comune che offre a matrice servizi a tutte le edizioni di tg. I politici cui appartengono le direzioni dei tg e i sindacati dei giornalisti sapranno affrontare quest’evoluzione o si comporteranno come le rane nelle pentole d’acqua calda?

Un nuovo modello di servizio pubblico

I cambiamenti nel mercato televisivo richiedono scelte strategiche di orientamento, difficili e spesso alternative tra loro. Ad esempio i canali digitali assemblati dalla Rai hanno i ricavi per punto di share più bassi del mercato e probabilmente inferiori ai costi necessari per produrli. Tra le televisioni pubbliche, Bbc ha quasi un 25 per cento di ricavi commerciali per vendita di programmi e attività collaterali; occorre andare nella stessa direzione per aumentare i ricavi? Rai ha attualmente il pubblico più vecchio della televisione italiana. Si tratta di incapacità o servizio pubblico? Bisogna impegnarsi per raggiunger il pubblico più giovane, più redditizio dal punto di vista pubblicitario? Le altre televisioni multicanale concentrano l’offerta informativa in uno dei loro canali con edizioni relativamente frequenti, mentre gli altri canali offrono pochi appuntamenti. L’offerta informativa Rai è costruita partendo da un’analisi della domanda o segue le gelosie tra i diversi telegiornali e l’orgoglio dei gruppi politici di riferimento? Molte di queste scelte non possono essere fatte solo in una logica di buona amministrazione, ma richiederebbero un orientamento chiaro dell’azionista di riferimento. Del resto, il modello di servizio pubblico italiano mostra segni di incrinatura.

Per molti anni avere una televisione pubblica finanziata in parte dalla pubblicità ha consentito ai cittadini di pagare un canone che è circa un terzo di quello tipico in paesi dove il servizio pubblico è più separato dal mercato, e ha incentivato un certo orientamento nei telespettatori. Negli ultimi tempi però tendono prevalere i difetti del modello che spinge la televisione pubblica a omologarsi con quella commerciale e lo stridore di certe scelte di programmazione emerge con maggior forza. Ma decidere il modello di servizio pubblico di un paese richiede un’ampia discussione che dovrebbe essere centrata sugli interessi dei cittadini, non dei dipendenti e dei concorrenti.

Infine, qualsiasi scelta si faccia sulla Rai, occorre tener conto degli impatti che ha sul funzionamento del mercato e sui concorrenti. Del resto anche Mediaset non è in una situazione facile. Dopo i due fallimenti strategici dell’investimento in Endemol e del tentativo di ingresso nella pay-tv, si ritrova troppo concentrata nella tv tradizionale e con scarsa visione sul mondo della rete. Se si decidesse di concentrare la Rai sull’offerta di servizio pubblico occorrerebbe individuare un modo per mantenere un grado di concorrenza accettabile.

Il settore televisivo è concentrato in tutti i paesi, ma in Italia il grado di concentrazione è sensibilmente più elevato. In prospettiva occorre disegnare un assetto del mercato più concorrenziale, sia sul versante pubblicitario che dell’ascolto. Un consiglio di amministrazione o un commissario che arrivino senza qualche indicazione chiara su questi punti rischiano nel caso migliore di fare poco e in quello peggiore di fare danni. Nominare un consiglio di amministrazione vagamente presentabile e con qualche competenza gestionale di settore è sicuramente un miglioramento necessario, ma è solo il primo passo.  

Originariamente pubblicato su lavoce.info con il titolo “Una Rai senza strategie”