Una riforma universalistica, ispirata dalla volontà di estendere le garanzie e le opportunità di un moderno Welfare to work e orientata a includere e valorizzare secondo principi di equità giovani e donne. Le parole con cui Mario Monti ed Elsa Fornero hanno illustrato obiettivi e filosofia della riforma del mercato del lavoro convincono solo in parte Vincenzo Visco, docente di scienza delle finanze e già responsabile dell’economia nel governo Prodi. Perché se «è giusta la direzione di fondo di un progetto che ci avvicina all’Ue ma che non esprime una visione socialdemocratica europea, è altrettanto palese il pericolo di abusi da parte delle aziende nella disciplina dei licenziamenti e la possibilità di gravi carenze nella rete di ammortizzatori sociali, in una realtà come quella italiana in cui sono assai deboli le politiche attive di promozione del lavoro». Senza un’iniziativa politica efficace su questo fronte, osserva l’economista, «il documento concepito dall’esecutivo rischia di essere una manifestazione di decisionismo finalizzata a offrire ai mercati lo scalpo della Cgil».
Quale è la sua valutazione della riforma messa a punto dal governo?
Complessivamente si tratta di un intervento che si muove nella direzione giusta e auspicata da tutti, a partire dalla limitazione significativa della flessibilità in entrata. Ridurre il ricorso ai contratti atipici attraverso l’incremento del loro costo per le imprese, che infatti non ne sono entusiaste, esprime una rottura nei confronti delle strategie egemoni negli ultimi quindici anni, fondate sulla precarietà e culminate nella legge Biagi. Altrettanto condivisibile è l’ampliamento rilevante della sfera di applicazione degli ammortizzatori sociali, visto che la platea dei loro beneficiari verrebbe triplicata.
L’ispirazione e le linee guida del documento Monti-Fornero possono essere considerate di impronta socialdemocratica?
Direi di no. La finalità della riforma è semplicemente quella di avvicinare il più possibile le nostre regole sul lavoro e sugli ammortizzatori sociali ai parametri europei, e alle realtà più avanzate del Vecchio Continente. Ma non vedo un impianto culturale organico di tipo socialista, visto che molte delle tutele previste nel testo del governo esistono anche nei paesi anglosassoni di tradizione più marcatamente liberale. L’elemento più delicato e che dovrà essere sottoposto a una rigorosa verifica è valutare in che forma l’intervento sul mercato del lavoro interagirà con la riforma previdenziale. Ciò vale soprattutto per il lavoratori più anziani, frequentemente colpiti dalle politiche di prepensionamento adottate da aziende alla ricerca di dipendenti più giovani e malleabili. Una strategia che negli stessi Stati Uniti incontra ostacoli e restrizioni innanzitutto sul piano legislativo. Attorno a questo problema e alla necessità di rovesciare una mentalità radicata da lungo tempo nei comportamenti delle imprese si deve aprire un’ampia riflessione. Ragionamento che tocca inevitabilmente l’articolo 18.
Le modifiche predisposte dal governo la persuadono?
Sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori il governo si è distinto per una rigidità immotivata, come se volesse offrire ai mercati lo scalpo della Cgil proprio nel momento in cui tutte le confederazioni erano concordi su un’ipotesi di cambiamento secondo il modello tedesco. Mi è apparsa eccessiva e sbagliata anche la presentazione decisionista e ultimativa del progetto da parte di Monti, desideroso di rivendicare all’estero un pacchetto di misure prive dall’appoggio di un grande sindacato. Sarà decisivo giudicare le modalità di applicazione delle nuove norme sui licenziamenti per ragioni economiche e per difficoltà oggettive dell’impresa. Ritengo plausibile che il maggior numero di aziende tenderanno ad allargare al massimo simili motivazioni per giustificare lo scioglimento del contratto di lavoro. È compito della politica operare attentamente per una chiara disciplina della flessibilità in uscita: solo in tal modo potremo evitare abusi e arbitri delle imprese nei confronti dei dipendenti ultracinquantenni.
È questa la priorità su cui dovrebbe impegnarsi il Partito democratico?
Senza dubbio. E accanto a una robusta iniziativa per rendere effettive le garanzie dell’articolo 18, il Pd ha il dovere di evitare che si creino buchi pericolosi e gravi lacerazioni nella nuova rete di protezione del lavoratore, affinché venga assicurata una promozione permanente e attiva del lavoro, anche attraverso percorsi di formazione e aggiornamento mirati e puntuali. Voglio tuttavia sottolineare che commetterebbe un errore chi pensasse che dalla riforma in discussione possa scaturire un’impennata degli investimenti produttivi in Italia. Lo sviluppo economico non dipende certo dalle nuove regole sulla flessibilità in uscita, che è già eccessiva nel nostro paese ed è una delle cause degli scarsi investimenti da parte delle stesse aziende.