BRUXELLES – Una politica industriale con investimenti pubblici è possibile, senza tornare al becero statalismo anni Settanta e senza ricadere, come ha detto proprio oggi Mario Monti a Bruxelles, in un “keynesismo vecchio stile”. Il tema degli investimenti pubblici “mirati” ritorna con forza proprio in questi giorni, con mezza Europa in recessione, ma c’è chi ha affrontato a fondo il tema già qualche mese fa, in uno studio pubblicato da Bruegel, il think tank economico di Bruxelles co-fondato proprio da Monti. Stiamo parlando dell’economista francese Philippe Aghion, professore di Economia all’Università di Harvard, che ha realizzato uno studio intitolato significativamente “Rethinking Industrial Policy”. «Il tema “politica industriale” – si legge – ha una cattiva reputazione: “selezionare i vincitori” e così distorcere la concorrenza, esponendo il governo ai rischi di essere catturato da interessi costituiti. Vi sono però ragioni per ripensarci» – un proclama, che farà arricciare il naso a molti.
Nello studio vengono elencati tre elementi per ripensare la politica industriale. Primo, il cambiamento climatico. «Senza intervento pubblico – si legge – per favorire l’avvio di investimenti privati massicci in tecnologie pulite, i governi, per default, incoraggiano gli investimenti in tecnologie più inquinanti». Secondo punto, «la compiacenza del laissez-faire di molti governi ha portato a investimenti sbagliati in settori non redditizi a scapito di settori con grandi potenziali». Chiediamo ad Aghion di chiarire il concetto. «In molti paesi europei, salvo la Germania – spiega – si assiste a una tendenza che vede conservare il settore dei servizi e alcune produzioni di punta, delocalizzando fuori dall’Europa il resto, soprattutto la produzione manifatturiera». Insomma, è il ragionamento di Aghion, «si mantiene in Europa così la fascia più bassa (soprattutto nel settore dei servizi ndr) e quella più elevata (l’high tech ndr), facendo outsourcing della fascia mediana (il grosso della produzione industriale, ndr)».
Se non si cambia, avverte l’economista, «mentre la Germania e varie economie emergenti decolleranno sempre più, buona parte del resto d’Europa rischia di fare la fine dell’Argentina». L’economista sottolinea proprio l’esempio tedesco, che non ha seguito la tendenza alla delocalizzazione di massa. «In Germania – dice – hanno delocalizzato solo la base della catena di produzione, i segmenti che meno richiedono un intenso uso di capitale umano, ma hanno mantenuto non solo la ricerca e sviluppo ma anche gli anelli di produzione medio-alti». Basta guardare colossi come la Volkswagen che, pur avendo tanti impianti fuori Europa, ne ha conservati molti anche in Germania. Ed è questo un altro degli errori, secondo il professore di Harvard, della politica di finanziamento Ue: troppo esclusività sull’high tech, serve invece un sostegno al settore manifatturiero più promettente. Collegato a questi ragionamento è il terzo elemento citato nello studio, la Cina: il colosso asiatico, e altre potenze emergenti, «sono grandi attuatori di politiche volte a sostenere i settori che danno crescita. La sfida per l’Europa è come delineare e governare politiche settoriali che favoriscano la concorrenza e così rilancino la crescita».
Una leva chiave, secondo lo studio, è la modifica della politica Ue nel settore degli aiuti di Stato. «Una robusta politica di concorrenza – avverte il documento – rimane essenziale per evitare rendite di posizione e favorire l’accesso (di nuovi soggetti economici ndr). Ma dovrebbe andare mano nella mano con un più grande attivismo economico degli Stati». Ci vuole dunque che Bruxelles sia meno rigida nell’attuazione delle norme Ue di Concorrenza. «Non vogliamo aiuti di Stato che frenino la concorrenza o favoriscano i vecchi monopolisti – precisa Aghion – ma noi siamo convinti che, fatti bene, gli aiuti possano associarsi alla competitività». Bruxelles, insomma, dovrebbe avere, si legge nello studio, «un approccio più fondato sui fatti, sull’economia settoriale, ascoltando di più gli Stati». E gli aiuti dovrebbero andare non a singole imprese, come un tempo, ma a comparti interi con pari opportunità per tutte le aziende favorendo la concorrenza interna al settore stesso.
Ma come fare in tempi di crisi e di tagli? «Certo che in questo momento un’attenta politica di bilancio è inevitabile – spiega Aghion – per questo i governi devono diventare degli strateghi, meglio mirando la spesa pubblica, insomma, bisogna ridurre le spese in certi settori per investirne in altri che hanno un futuro. Per esempio in Francia ci sono troppi doppioni amministrativi, un peso eccessivo della burocrazia, l’assicurazione malattia ha un deficit insopportabile, e via dicendo. Su questi margini si può fare molto». Paradossalmente, del resto, secondo lo studio pubblicato da Bruegel, proprio la crisi e il “credit crunch” possono essere un motivo in più per il sostegno pubblico: «le restrizioni impediscono un’efficace riallocazione delle risorse verso attività con più elevato potenziale di crescita».
Aghion arriva a sostenere che, oltre alla Bei «ci vorrebbero banche pubbliche d’investimento in tutti e 27 gli Stati membri», mentre a livello Ue «ci vogliono i project bond, occorre utilizzare il bilancio comunitario per consentire, con l’effetto leva, di aiutare la Banca europea d’investimento ad aumentare i prestiti alle imprese». Il professore di Harvard chiede un sostegno alle grandi società internazionali (anzitutto sgravi fiscali) per fronteggiare la concorrenza globale, ma anche uno «small business act», gli Stati dovrebbero dare la priorità del sostegno alle piccole e medie imprese. Politica industriale e aiuti di Stato sì, è il messaggio, ma da Ventunesimo secolo, altrimenti, ammonisce Aghion, «l’Europa è condannata a un’inesorabile decadenza». La discussione, e le inevitabili polemiche, è assicurata.