A dodici anni sono stata data in sposa a un uomo per rimediare al danno causato da mio fratello, che era scappato con una delle sue sorelle. Non sono state nozze felici. Mio marito mi picchiava e mi violentava e dopo nove anni e tre figli, il primo dei quali l’ho avuto a 13 anni, mi ha accusata di aver tentato la fuga con un uomo con il quale aveva una disputa e che io nemmeno conoscevo. Sono sicura che si è inventato tutto soltanto per vendicarsi di un nemico e liberarsi di me, il giorno dopo il mio arresto ha sposato un’altra donna (Souriya, 21 anni, condannata a 5 anni e mezzo per avere tradito il marito e tentato la fuga)
Quella di Souriya è solo una delle 58 storie di ingiustizia, soprusi e disperazione raccolte dall’ong Human Rights Watch in tre prigioni e in tre centri di detenzione per minori in Afghanistan. Storie di donne, a volte di ragazzine poco più che bambine, arrestate e imprigionate semplicemente per aver cercato di scappare da una vita di violenze e soprusi. I had to runa way: women and girls imprisoned for “Moral crimes” in Afghanistan, è questo il titolo del rapporto stilato dall’organizzazione a difesa dei diritti umani che denuncia la presenza nelle carceri afghane di oltre 400 donne e bambine arrestate per aver commesso crimini contro la morale.
Crimini che in realtà molto spesso altro non sono se non il disperato tentativo di sottrarsi a matrimoni forzati o a situazioni di violenza fra le mura di casa. «È sorprendente che, dieci anni dopo la fine del governo talebano, continuino a esserci donne e bambine arrestate per essere scappate da abusi domestici o unioni imposte contro la loro volontà – commenta Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch –. Non bisognerebbe arrestare nessuno perché fugge da una situazione di pericolo, anche se questo avviene all’interno della propria casa».
Pur non essendo la fuga un delitto contemplato dal codice penale, i giudici considerano alla stregua di delinquenti le donne che tentano di allontanarsi da casa. E per le afghane, rivolgersi alla polizia per sporgere denuncia o chiedere aiuto, spesso non rappresenta una valida alternativa. Sono molte infatti le donne che hanno raccontato di essersi recate dalle forze dell’ordine sperando di ottenere protezione e che invece sono state portate in carcere.
Dopo un mese dal nostro matrimonio ha iniziato a picchiarmi. Anche mia suocera mi picchiava. Sono andata dalla polizia, sapevo che mi avrebbero arrestata per essere scappata. Ho detto al poliziotto: “Portatemi in prigione”. Quando uscirò da qui tornerò dai miei genitori, credo mi aiuteranno, e proverò a divorziare da “lui”. Non voglio usare la parola “marito”, la odio. Il mio fegato è diventato nero per colpa di mio “marito”… Se avessi immaginato cosa avrei dovuto sopportare mi sarei buttata in un fiume e mi sarei suicidata. (Parwana, 19 anni, condannata a 6 mesi di carcere)
Il divorzio che Parwana si augura di ottenere, non è certo un obiettivo facile da raggiungere, soprattutto per la forte influenza che le leggi arcaiche continuano a esercitare nel Paese. Secondo tali norme a un uomo basta semplicemente dichiararsi divorziato per essere ritenuto tale, mentre per una donna ottenere la separazione risulta quasi impossibile. Troppo spesso, se non tollerata, la violenza sulle donne è considerata come parte della normalità. «Devi essere paziente», così risponde il padre di una delle ragazze intervistate da HRW, dopo che la figlia gli aveva chiesto aiuto per le angherie subite dal marito. E sebbene la legge del 2009 per l’eliminazione della violenza contro la donna affermi che picchiare una donna costituisca reato, molto spesso gli uomini non vengono nemmeno indagati per i crimini che commettono ai danni delle loro compagne, mentre queste ultime vengono arrestate per aver semplicemente tentato di mettersi in salvo.
Nonostante nel 2007 il governo si sia impegnato nella redazione di un piano di azione nazionale a favore della donna e nella stesura di una nuova legge sulla famiglia, la situazione nel Paese non è migliorata e la legge, bloccata dal 2010, è tutt’altro che vicina alla sua approvazione.Le donne accusate di crimini contro la morale, riporta HRW, vanno incontro a un sistema giuridico che le ostacola in ogni modo: vengono arrestate su semplice denuncia dello sposo o di un familiare, i pubblici ministeri ignorano le prove di innocenza che queste provano a presentare, le condanne spesso vengono imposte basandosi su confessioni ottenute in assenza di avvocati e firmate da donne che non sanno né leggere né scrivere.
Oltre alla fuga da casa, un altro dei principali reati di cui vengono accusate le afghane è lazina, ovvero l’avere avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio. Per questo crimine le donne possono essere punite con ben 15 anni di reclusione.
Nel 2011 sono andata a trovare i miei familiari che vivono in un’altra città, mentre mio marito è rimasto a casa. Una volta arrivata, sono entrata in una stanza e ho salutato il fratello di mia cognata. Mio fratello si è arrabbiato molto, mi ha gridato che non avevo il permesso di parlargli e ha detto che mi avrebbe uccisa per questo. Sia io che il fratello di mia cognata avevamo paura che ci uccidesse, così anche se fra noi non c’era niente abbiamo deciso di fuggire insieme. Dopo qualche settimana mio fratello l’ha trovato e l’ha fatto arrestare. Ero terrorizzata, temevo che presto avrebbe preso anche me e che mi avrebbe ammazzata, così sono andata alla polizia. Mi hanno arrestata, ma se non altro qui sono al sicuro. (Rabia, 20 anni, condannata a sette anni per zina)
Secondo il rapporto di Human Rights Watch sono molte le donne e le ragazzine che vengono accusate di zina pur essendo state violentate o costrette a prostituirsi.
Stavo andando a trovare mia madre in ospedale e ho preso un taxi. In Afghanistan spesso i taxi portano più passeggeri, così quando sono salita sull’auto c’era già un altro uomo. I due mi hanno portata nella casa di una loro sorella e mi hanno violentata. Quando il giorno dopo mi hanno liberata non stavo bene, i miei familiari hanno scoperto tutto e mi hanno accompagnata alla polizia. Ho detto agli agenti dove si trovava la casa dove mi avevano condotta. I due uomini sono stati arrestati, ma mi hanno accusata dicendo che ero stata io a volere andare con loro. So che uno di loro dovrà restare in carcere per due anni, dell’altro non so nulla, così come non so perché la corte abbia deciso di condannare anche me (Marya, 15 anni, condannata a un anno di reclusione in un centro di detenzione giovanile)
Nel 2009 La legge EVAW ha introdotto per la prima volta il reato di stupro, stabilendo dai cinque anni alla pena di morte per il colpevole, nel caso la vittima sia deceduta a causa della violenza. Prima del 2009, il codice penale del 1976 prevedeva l’esistenza di crimini contro l’onore e fra questi anche casi legati alla violenza sessuale. Non è chiaro se il reato di stupro, nonostante la sua introduzione, sia già stato processato. Alcuni dati governativi riguardanti persone incarcerate per diverse ragioni da ottobre 2011 rivelano che su 20.901 detenuti maschi e femmine, 993 erano in carcere per zina, 414 per pederastia, mentre lo stupro non era nemmeno registrato come categoria, così come la violazione dell’onore. È quindi probabile che nella misura in cui lo stupro sia stato processato, esso sia stato perseguito in base alle disposizioni del codice penale in materia di zina e non secondo la legge del 2009 che criminalizza specificamente lo stupro.
«I tribunali mandano le donne in carcere per dubbi delitti, mentre i veri criminali, i loro aguzzini, restano in libertà – racconta Roth – Persino gli abusi più terribili non sembrano provocare più che uno scrollamento di spalle da parte dei pubblici ministeri, a discapito delle leggi che condannano la violenza contro le donne». L’Onu ha invitato l’ Afghanistan ad abolire le leggi come quelle legate al reato di zina, che discriminano le donne e le condannano a pene ingiuste e degradanti. «Per Karzai, gli Stati Uniti e gli altri soggetti interessati – aggiunge Roth – è arrivato il momento di far valere le promesse che sono state fatte dieci anni fa alle donne afghane: mettere fine ai crimini contro la morale e portare avanti realmente la promozione dei diritti delle donne».