Travolta dagli scandali interni, la Lega Nord deve anche fare i conti con il bilancio deludente della propria esperienza di legislatore. Molti dei suoi provvedimenti “bandiera” sono stati bocciati o modificati dall’intervento della Corte Costituzionale. Da ultima, una legge regionale lombarda è stata impugnata dal governo davanti alla Consulta. “Partito di lotta” nello sfruttare i casi di cronaca nera per guadagnare consenso, la Lega non è stato altrettanto abile come “partito di governo” nel tradurre in leggi le proprie parole d’ordine.
Il 13 aprile il Consiglio dei Ministri ha deciso di impugnare di fronte alla Corte Costituzionale tre leggi regionali, tra cui la n.3 del 27 febbraio 2012 della Regione Lombardia, ribattezzata “legge Harlem”. La norma prevede che chi vende alimenti o bevande dimostri di conoscere la lingua italiana e che in italiano debbano essere tradotte anche insegne ed etichette. Sono anche previste regole più severe per aprire centri massaggi o negozi di acconciatore e i sindaci hanno la possibilità di vietare l’apertura «di attività che non siano tradizionali o qualitativamente rapportabili ai caratteri storici, architettonici e urbanistici dei centri storici», per evitare la nascita di “quartieri-ghetto”.
Il provvedimento, secondo il governo,«contrasta con i principi comunitari e statali in materia di condizione giuridica degli stranieri, tutela della concorrenza e disciplina delle professioni». Se la Corte Costituzionale desse ragione all’esecutivo, questa sarebbe solo l’ultima di una serie di leggi, fortemente volute dal Carroccio, a cadere sotto la falce dei giudici.
Un anno fa, ad aprile 2011, la Consulta aveva bocciato la legge che dava ai sindaci il potere di emanare ordinanze a tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana. Secondo i magistrati, l’art. 54 comma 4 del Tuel (testo unico sugli enti locali) concedeva ai cosiddetti “sindaci-sceriffi” poteri non sufficientemente delimitati. Le ordinanze non sono uno strumento costituzionalmente idoneo agli scopi che gli venivano attribuiti (ad esempio l’ex-sindaco di Milano Letizia Moratti ne emanò in tema di alcol, prostituzione e droga) perché, secondo i giudici, «la Costituzione italiana, ispirata ai principi fondamentali della legalità e della democraticità, richiede che nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base alla legge», così come previsto dall’art. 23 della Carta.
(sentenza Corte Costituzionale 115/2011)
A giugno 2010, la Consulta aveva parzialmente bocciato la norma sulle “Ronde Padane”: via libera all’impiego di cittadini non armati per segnalare eventi che possano arrecare danno alla «sicurezza urbana», escluso invece il loro intervento nelle situazioni di «disagio sociale». Questo è infatti un ambito in cui devono operare i servizi sociali, non le ronde.
(sentenza Corte Costituzionale 226/2010)
Un mese dopo, a luglio, era stata una norma del “pacchetto sicurezza”, quella sul carcere obbligatorio per gli stupratori, a essere bocciata dai giudici costituzionali. La modifica dell’art 275 del codice di procedura penale era nata sull’onda di un caso di cronaca, lo “stupro di capodanno” di Roma. Lo “stupratore” (allo stato attuale del processo è ancora incerta la condanna) si era costituito, confessando di aver avuto un rapporto sessuale con la ragazza che aveva denunciato la violenza, secondo lui in modo consensuale. Il giudice, valutate le esigenze cautelari e la personalità del reo, aveva disposto la misura degli arresti domiciliari. In seguito al clamore mediatico suscitato dal caso (“Già a casa lo stupratore di capodanno”, fu il titolo di alcuni articoli), il governo varò la norma. Ma, come successivamente rilevato dalla Consulta, è incostituzionale disporre “a priori” l’esistenza di un’esigenza cautelare tale da imporre, in attesa del giudizio, la misura della detenzione. Si può fare un’eccezione a questo principio per i reati di mafia, non per altri crimini pur gravi. (sentenza Corte Costituzionale 265/2010)
Il tema è tornato di attualità a febbraio di quest’anno, a seguito della decisione della Cassazione di applicare il principio enunciato dalla Corte Costituzionale anche allo stupro di gruppo. (sentenza Corte di Cassazione 4377/12)
Anche nella questione “Ministeri al nord” sono intervenuti i giudici. Nell’ottobre 2011, prima ancora che il governo Monti decidesse di restituire gli immobili ai legittimi proprietari e chiudere le sedi distaccate a Monza, era stato il Tribunale di Roma, III sezione Lavoro, a censurare l’esecutivo per “condotta antisindacale”. Secondo il magistrato prima di emanare i decreti istitutivi si sarebbero dovute coinvolgere e informare le rappresentanze dei lavoratori e, non avendolo fatto, gli effetti di tali decreti vanno annullati.
La “bandiera” leghista più importante, caduta sotto i colpi dei giudici, è il reato di immigrazione clandestina. A introdurlo era stata la legge 15 luglio 2009, n. 94 (anch’essa facente parte del “pacchetto sicurezza”). In un primo momento la Corte Costituzionale, nel 2010, aveva salvato la figura del reato, bocciando però l’introduzione dell’aggravante della clandestinità nel caso di commissione di altri reati. (sentenza 250/2010 Corte Costituzionale)
A snaturare definitivamente il provvedimento, rispetto alle intenzioni dei suoi promotori, è stata la Corte di Giustizia dell’Unione europea nel 2011. Secondo i giudici il reato in sé è ammissibile, ma la sanzione del carcere è in contrasto con la lettera e gli scopi della “direttiva rimpatri”. «Una simile pena detentiva – scrive la Corte – rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi, il cui soggiorno sia irregolare, nel rispetto dei diritti fondamentali». Pochi giorni dopo la sentenza furono liberati i primi clandestini “illegittimamente” detenuti nelle carceri italiane. (Corte di Giustizia dell’Unione europea, sent. 28 aprile 2011, Hassen El Dridi, causa C-61/11 PPU)
Tutte queste sentenze sono state duramente contestate dalla Lega Nord. Su questi temi, in particolare stupri e lotta alla clandestinità, il partito di Bossi aveva guadagnato molti voti nelle elezioni nazionali e locali. Ma se la politica ammette che si guadagni consenso con proposte di legge incostituzionali, l’ordinamento giuridico non permette che quelle stesse leggi, una volta emanate, sopravvivano.