Dall’Unità a oggi, 150 anni di evasione e tasse elevate

Dall’Unità a oggi, 150 anni di evasione e tasse elevate

«Imposte, imposte e null’altro che imposte», tuona in Parlamento Quintino Sella nel 1870, protestando perché l’unica maniera escogitata per finanziare le guerre che l’Italia conduceva contro l’Austria (nel 1866 era stato annesso il Veneto) era aumentare le tasse. «La corda della pazienza per le tasse e relative molestie è
arcitesa; ci vuole più poco a strapparla del tutto», osserva ancora il medesimo Sella. E se questo lo diceva il ministro delle Finanze del governo presieduto da Giovanni Lanza, pensate un po’ quanto tuonavano le sinistre all’opposizione (che infatti andranno al governo cinque anni più tardi con Agostino Depretis).

Dal punto di vista fiscale, la neonata Italia post unitaria assomiglia in modo inquietante a quella attuale, segno che la continuità storica esercita il suo peso. Questo e altro emerge da uno studio redatto da Stefano Manestra per Banca d’Italia dal titolo “Per una storia della Tax Compliance in Italia”. Il lavoro arriva fino ai giorni nostri, ma è interessante dare un’occhiata a quel che succedeva agli albori dell’Unità, quando sono stati gettati i semi da cui sarebbe germinata l’Italia che noi conosciamo. Semi, in alcuni casi, avvelenati fin dal principio. Dunque: le tasse erano alte, molti non le pagavano e si scaricava tutto su quelli che già le pagavano, facendo loro pagare di più. Vi dice niente?

La Destra storica, liberista per definizione, vede nella pressione fiscale troppo alta la causa dell’evasione e dell’elusione, qualcuno, nel 1875, parla di «insistenti lamentanze» che riempiono gli annali del Parlamento del Regno. Ma anche l’analisi della Sinistra storica non si discosta granché: «Gravezza, stimolo tanto potente alla frode», sottolinea Depretis. Giulio Alessio, uno dei principali studiosi di questioni tributarie, nel 1883 emette il suo verdetto: «L’elevatezza dell’aliquota e la meschinità del minimum esente dall’imposta, sono le cause principali di dichiarazioni e d’accertamenti tanto inferiori al vero». L’Italia nasce appesantita dal debito pubblico perché deve fare guerre (le chiamavano spese di «costituzione») e costruire infrastrutture («impianto», nel gergo di allora, ma almeno le facevano) e così nel primo decennio post unitario le entrate sono, in media, un terzo della spesa. Per cacciare l’austriaco invasore (che tra l’altro aveva uno dei sistemi fiscali più efficienti d’Europa) si susseguono i «decimi di guerra» che portano il prelievo fiscale italiano a un 10 per cento in più di quello britannico (e non è che all’epoca Londra si tirasse indietro con le guerre). Rispetto al quinquennio pre unitario 1850-1855, nel 1871 un piemontese paga il 42 per cento in più, un lombardo il 130 per cento, un romano il 63 per cento e un napoletano il 125 per cento.

Tante tasse, e quindi molti tentativi di non pagarle. Non che negli stati pre unitari si mettesse mano al borsellino con allegria. Proprio nei giorni scorsi è emerso dagli scaffali dell’Archivio di Stato di Venezia, un documento finora sconosciuto autografato da Antonio da Canal, detto il Canaletto (l’ha ritrovato l’archivista Alessandra Schiavon, onore al merito). Una legge approvata dalla Serenissima repubblica il 18 aprile 1739 obbliga tutti i contribuenti a denunciare i beni di proprietà da sottoporre a tassazione.

Il 27 agosto la famiglia del pittore redige un atto relativo a due immobili, uno in uso, l’altro in affitto, dichiarando da questo secondo una rendita di 40 ducati. La tassa sarebbe stata di 4 ducati, pari al 10 per cento. Ma un nuovo atto del 10 settembre, sempre firmato da Antonio Canal, afferma che nella denuncia precedente c’era stato un errore e la rendita è invece di 80 ducati. Naturalmente è impossibile capire se Canaletto sia un contribuente modello che autodenuncia un errore involontario, o se invece ci abbia provato denunciando la metà dell’introito effettivo e qualcuno gli abbia consigliato di stare in campana. All’epoca Canaletto ha 42 anni ed è già un pittore di gran fama, magari la Serenissima Signoria sarebbe stata ben felice di dare a tutti un significativo esempio colpendo un evasore fiscale tanto illustre.


Lo studio di Bankitalia, invece, ci riconduce a una realtà in qualche modo simile a quella attuale. Se si fa un paragone tra i ruoli fiscali del 1878 e i dati del censimenti del 1881 se ne deduce che pagano le tasse soltanto il 72 per cento dei notai, il 43 per cento degli avvocati, il 40 per cento dei medici e il 20 per cento degli ingegneri, ovvero di coloro che nel censimento si qualificano come tali. Invece tra i «bottegai» (oggi si direbbe commercianti ed esercenti) e i professionisti residenti nelle cinque principali città italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino e Genova) risultano iscritti fra i contribuenti il 73 per cento dei primi e il 44 per cento dei secondi. Nel 1909 si constata che in alcune grandi città «il numero dei contribuenti colpiti dalla imposta nelle categorie dei commerci e delle professioni raggiunge appena il terzo degli esercenti compresi» nelle guide statistiche dei medesimi centri urbani.

Nello stesso anno, partendo dai dati ministeriali del 1902, uno studio confronta il numero dei contribuenti tassati a Roma e quello degli iscritti nella guida Monaci: mancano all’appello il 47 per cento degli avvocati e il 41 per cento dei medici. Nel 1913, il ministero delle Finanze riscontra la presenza nei ruoli fiscali del 43 per cento degli avvocati, del 61 per cento dei medici, del 50 per cento degli ingegneri e architetti e del 28 per cento dei geometri, rispetto a quelli che tali si erano auto dichiarati nel censimento del 1911.

Quintino Sella, siamo ancora nel 1870, spiega in Parlamento il sistema più comune praticato dai commercianti di allora per sfuggire al fisco. «Una curiosa speculazione si fa in taluni luoghi. Vi ha un negozio intestato a Tizio. Egli fa la sua dichiarazione: si fa l’accertamento. Si spicca la bolletta di pagamento; ed ecco che non più Tizio è il proprietario, ma Caio. E l’antico proprietario? “Non vi è più”.Dov’è andato? “Io non lo so”. Ma vi è la tassa da pagare.  “Andate a farvela pagare da Tizio: io sono Caio e non sono Tizio”.
In sostanza, si fa questo giuoco di far cambiare di proprietari i negozi, e la finanza corre invano dietro quelli che devono pagare la tassa».  

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