Ecco come la Lega si innamorò di Roma Ladrona

Ecco come la Lega si innamorò di Roma Ladrona

«Noi siamo i nemici di Roma padrona e ladrona. Di Roma farabutta». Nel giorno della defenestrazione il vecchio leader si riappropria degli slogan di un tempo. Rabbioso, Umberto Bossi torna ad accusare il grande nemico. Roma, la capitale. La Città Eterna. Simbolo del centralismo dello Stato, degli inciuci di Palazzo. Insomma, l’antitesi della Lega Nord. Ma anche la ragione stessa della sua esistenza.

Troppo facile adesso parlare di nemesi. Ironizzare sul triste destino di un partito travolto dallo scandalo sui finanziamenti pubblici, che pure deve la sua fortuna a quel «Roma ladrona». Il rapporto tra il movimento di Umberto Bossi e la Città Eterna è più complesso. Una rivalità che ha visto prevalere, senza nemmeno troppa fatica, la Capitale. Perché gli insulti contro la città avranno pure reso famosi Bossi e i suoi. Ma a Roma la Lega si è arresa quasi subito. Alle prime delegazioni padane è bastato trasferirsi al sole del Campidoglio per smarrire la propria essenza. Neanche il tempo di varcare gli Appennini e il Carroccio aveva già perso la sua indole. E negli anni si è trasformato – chissà quanto consapevolmente – in un partito romano. Anzi, nel più romano di tutti.

Eletto senatore, Umberto Bossi arriva nella Capitale alla fine degli anni Ottanta. Nel 1992 nasce il primo gruppo parlamentare padano a Montecitorio. Due anni dopo, il Carroccio sale al governo. La Lega mette finalmente le mani sul potere: si siede al tavolo della partitocrazia. Entra con tutte le scarpe in quella che qualche tempo fa il senatùr definì «la palude romana». Nei primi anni Novanta è subito chiaro che i leghisti sono sulla buona strada per la definitiva romanizzazione. C’è una vicenda che racconta perfettamente la transizione. Nel dicembre 1994 Umberto Bossi invita nella sua abitazione il segretario Pds Massimo D’Alema e il numero uno del Partito Popolare Rocco Buttiglione. Davanti a qualche scatoletta di sardine e alcune lattine di birra, si trattano i dettagli del ribaltone che di lì a poco avrebbe fatto cadere il governo Berlusconi.

Bossi è diventato un politico scaltro e navigato. Ma non ancora un vero romano. Perché nella Capitale si mangia. E si mangia bene. I parlamentari del Carroccio impiegano poco tempo a imparare anche questo. Oggi per conoscere le tendenze culinarie della città basta seguire un esponente leghista. Altro che polenta. Le tradizioni padane si perdono tra una coda alla vaccinara e un piatto di rigatoni con la pajata. La dimostrazione? Basta fare un salto da Fortunato al Pantheon, storico ristorante a due passi da Montecitorio. Era il ritrovo gastronomico dei protagonisti della prima Repubblica. Negli ultimi anni è diventata una delle cornici più frequenti per i vertici leghisti. Storiche le serate padane alla Fiaschetteria Beltramme, in via della Croce. Uno dei luoghi più autentici della romanità: dove già nell’Ottocento venivano serviti porchetta e vino dei Castelli. Ma la zona più gettonata è quella di via Veneto. Qui i leghisti in trasferta vengono ad assaporare quel che resta della dolce vita (quasi sempre in un noto ristorante di pesce).

Non solo il centro storico. Le radici che i parlamentari della Lega hanno messo a Roma si misurano anche dalla conoscenza della città. Piuttosto che frequentare i locali della zona del Parlamento – a rischio di venire additati come turisti qualsiasi – i padani hanno allargato i propri confini. Tra le mete preferite sono entrati a buon diritto i Parioli, quartiere della ricca borghesia a nord della città. Tra piazza Ungheria e Villa Glori i due locali più richiesti sono “Il Ceppo” di via Panama e “Il Caminetto”, in cui più di una volta si sono dati appuntamento i parlamentari piemontesi del Carroccio. Ultimamente, raccontano, sarebbero entrati in orbita padana anche alcuni ristoranti della zona di Ponte Milvio. La piazza resa celebre dai lucchetti dei romanzi di Federico Moccia.

Umberto Bossi? A lui piace prendere il gelato, magari seduto al tavolino. È facile incontrarlo da Giolitti, storico locale nei pressi di Montecitorio. Proprio di fronte all’ingresso del palazzo che ospita i gruppi parlamentari. Ogni tanto il Senatùr si siede lì, beato. A guardare il passeggio. Magari nemmeno lo sa, ma il suo bar preferito si trova in uno dei luoghi più celebrati della città. In via Uffici del Vicario. A pochi passi dallo studio dove, nel luglio del 1927, venne fondata la squadra di calcio della Roma. Il pallone, altra passione cittadina. E così qualche parlamentare leghista ha iniziato a tifare per i giallorossi. È il caso del deputato Pierguido Vanalli, esponente del Carroccio in commissione Affari costituzionali. Ma soprattutto sindaco di Pontida, città simbolo della Padania.

Chi l’avrebbe mai detto. I parlamentari leghisti sono diventati romani. Anzi, per certi versi sono anche più meridionali. Come spiegare altrimenti il culto della famiglia del partito bossiano. La forte presenza del clan, dell’appartenenza. Ma anche le ultime vicende legate al nepotismo, alle raccomandazioni. I figli piezz’e core che devono seguire le orme del padre. Buttati in politica, ma con la strada ben spianata. Ecco una delle tante ambiguità della Lega. Il partito che con il Tricolore ci si pulisce il c…. Ma che su quella stessa bandiera fa giurare i propri ministri quando è tempo di andare al governo. Il partito che odia i trabocchetti e le burocrazie del Palazzo, ma che può annoverare in Roberto Calderoli uno dei più fini studiosi dei regolamenti parlamentari. Il partito dei duri e puri, costretto a barattare il federalismo fiscale con le norme ad personam di berlusconiana memoria.

E così la sacra acqua del Dio Po è stata sacrificata sull’altare di un “nasone” qualunque (per chi non lo sapesse il nasone è la caratteristica fontanella romana). La Lega ha scoperto Roma. Se n’è innamorata. E adesso non se ne vuole più andare. Per carità, qualche romantico antiromano c’è ancora. Prendete il caso dell’ex ministro Calderoli: uno che si è sempre rifiutato di comprare un appartamento in città. «Perché la casa è legata al proprio territorio» spiegava con orgoglio qualche anno fa. Alcuni deputati – specie i più giovani – la pensano come lui. Quando i lavori parlamentari li costringono nella Capitale vivono in albergo, il trolley sempre a portata di mano. «Una vita da zingaro», si lamentava uno di loro qualche giorno fa. Qualcun altro ha preferito traslocare. C’è chi ha scelto di prendere casa tra le botteghe degli antiquari dietro piazza Navona. E chi ha scelto la tranquilla periferia nord della città (e date le polemiche giornalistiche che hanno seguito l’acquisto del suo appartamento c’è da scommettere che il leghista Angelo Alessandri se ne è già pentito). Ma l’angolo più bello della Capitale l’ha scovato il senatore Roberto Castelli. Un appartamento in via dei Quattro Venti, a Monteverde Vecchio. Il quartiere gioiello della Città Eterna, sulle pendici del Gianicolo. Pensare che pochi mesi fa Castelli era stato uno dei più convinti sostenitori della necessità di istituire un pedaggio sul Raccordo anulare. Era diventato l’incubo dei pendolari romani. Difficile dargli torto. Tanto il Raccordo tra i villini liberty del Gianicolo mica ci passa.  

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