I partiti vogliono il proporzionale perché garantisce rimborsi elettorali a tutti

I partiti vogliono il proporzionale perché garantisce rimborsi elettorali a tutti

Introdurre controlli rigorosi sull’uso delle risorse pubbliche da parte delle forze politiche, consentendo a un’autorità imparziale come la Corte dei Conti di certificare bilanci e patrimoni. Attuare l’articolo 49 della Costituzione attribuendo personalità giuridica ai partiti e definendo parametri di democrazia nella loro vita interna e nella selezione delle candidature. Angelino Alfano, Pierluigi Bersani e Pier Ferdinando Casini sembrano concordi sugli obiettivi del progetto di legge rilanciato solennemente all’indomani dello scandalo che ha travolto la Lega Nord.

L’immagine offerta dall’asse ABC (Alfano-Bersani-Casini) è improntata al decisionismo e alla volontà di approdare presto a un testo organico, anche a costo di approvare il provvedimento nelle commissioni parlamentari in sede deliberante. Ma con identica determinazione i dirigenti delle principali formazioni politiche rifiutano di intervenire sulla legittimità del finanziamento statale ai partiti e sull’entità degli abnormi rimborsi elettorali.

Rimborsi che nella vicenda Belsito risultano dieci volte superiori alle spese effettivamente sostenute per le campagne e le iniziative sul territorio. È questo il tabù, l’argomento intoccabile, il cuore del problema esploso con gli scandali e le indagini giudiziarie sulle attività degli amministratori della Margherita e del Carroccio. Stampa e politica focalizzano l’attenzione e le denunce sul malaffare e sulla disonestà di singoli esponenti di partito, sui fenomeni di appropriazione indebita per fini personali, familiari e clientelari, sui legami perversi con ambienti vicini alla criminalità organizzata e sulle contraddizioni fra gli slogan gridati per anni e le scelte realizzate a ogni livello istituzionale.

In questo modo si ripete l’errore compiuto ai tempi di Mani Pulite, quando l’indignazione dei cittadini fu orientata sui casi eccellenti e individuali di corruzione e si evitò di andare in profondità sulle cause scatenanti di un malcostume che permeava l’intero universo politico ed economico. Anche oggi prevale il silenzio e l’indifferenza verso le ragioni delle illegalità e delle malefatte della Casta, e si preferisce restare in superficie indicando scandalizzati la punta dell’iceberg. Salvo rarissime eccezioni, nessuno osa denunciare l’immoralità e la natura criminogena delle norme sui rimborsi elettorali ai partiti, concepiti nel 1994 all’indomani del referendum radicale che aveva sancito in forma plebiscitaria l’abrogazione definitiva del finanziamento pubblico alla politica.

Un fiume di denaro appartenente ai cittadini che nel corso degli anni è stato dilatato, fino a divenire una formidabile serbatoio di alimentazione di apparati e burocrazie. Complessivamente nelle casse delle formazioni politiche si sono riversati oltre 2,7 miliardi di euro, a fronte di spese elettorali certificate per 700 milioni. Dunque un bottino di 2 miliardi pieni, sottratto alla collettività ope legis, in maniera coercitiva e prescindendo da qualunque manifestazione di volontà da parte dei contribuenti. Per giustificare un simile provvedimento le formazioni politiche si sono richiamate ai valori della democrazia rivendicando il ruolo essenziale dei soggetti e movimenti oggi esistenti. Segretari e tesorieri hanno identificato il regime repubblicano tout court con il destino delle forze in campo, e hanno avuto buon gioco nell’imporre i contributi statali a organizzazioni private e di parte in nome dell’etica pubblica.

Recuperando con impressionante consonanza di accenti e di argomentazioni il ragionamento con cui negli anni Settanta Enrico Berlinguer legittimò la necessità del finanziamento pubblico, personalità di diverso orientamento hanno sollevato lo spettro della plutocrazia, della politica privilegio esclusivo dei più ricchi, pur di respingere l’ipotesi di un diverso modo di essere dei partiti. Al pari del segretario dell’allora Partito comunista e dimenticando quanto accaduto proprio a partire dall’entrata in vigore della prima legge sui contributi statali alle forze politiche, essi affermano che la corruzione e le connivenze tra politica e affari prenderebbero piede se fosse ammesso solo il finanziamento volontario, e respingono con sdegno ogni riferimento al modello nordamericano.

Modello che nel 2008 consentì a uno sconosciuto Barack Obama di sconfiggere i repubblicani e le loro lobby potenti attraverso una miriade di donazioni individuali inferiori ai cento dollari. Anche coloro che si sono presentati come alfieri della rivoluzione liberale e liberista privilegiano una forma partito burocratica e verticistica, forte di un apparato elefantiaco che vive e si cristallizza grazie allo stretto legame con le elargizioni dello Stato. Anziché optare per un regime di assoluta trasparenza e conoscibilità delle risorse donate liberamente dai privati per incoraggiare precise iniziative nell’opinione pubblica, e avere l’umiltà di rivolgersi a tutti per trovare sostegno economico, i partiti italiani preferiscono la strada comoda e ipocrita della distribuzione proporzionale di denaro attinto alla fiscalità generale.

Una forma sottile di sottrazione di risorse, che condanna la collettività all’inerzia civile e politica, favorendo l’involuzione oligarchica di gruppi nati per rappresentare le sue svariate esigenze. Potendo disporre di un flusso sterminato di liquidità, le formazioni politiche rinunciano a impegnarsi per conquistare fiducia e raccogliere fondi, e si distaccano sempre di più dall’opinione pubblica e dagli stessi militanti. La conservazione delle loro burocrazie e la sopravvivenza della rete di potere e clientele non è mai in pericolo grazie alle entrate milionarie provenienti dall’Erario.

Se all’inizio degli anni Novanta Giuliano Amato aveva proposto un modello di partito ispirato a Eta Beta, il personaggio di Walt Disney con una testa enorme e un corpo sottilissimo e elastico, le scelte compiute dai partiti eredi della prima Repubblica hanno seguito la direzione opposta. E le formazioni odierne appaiono giganti senza cervello, privi di capacità di ideazione, incapaci di promuovere e lottare per progetti e obiettivi, soffocati da una struttura dominata dall’impulso di sopravvivenza. È immaginabile che realtà organizzate in questo modo rimangano impermeabili a spinte corruttive e al malaffare? La legge votata all’unanimità nel 1999 destina immense risorse pubbliche ai partiti, moltiplicando a dismisura i rimborsi per le campagne elettorali politiche, regionali, europee. Ma se solo un quinto delle sovvenzioni statali viene impiegato per compensare le spese di ogni tornata, come saranno utilizzate le somme in eccesso? È davvero giustificabile lo stupore e lo scandalo di fronte alle vicende Lusi e Belsito?

Le norme sul finanziamento della politica costituiscono dunque una formidabile garanzia di sopravvivenza per i partiti attuali. Lo confermano le parole di mirabile onestà intellettuale pronunciate dal tesoriere del Partito democratico Antonio Misiani: «Senza i contributi pubblici le forze politiche che abbiamo conosciuto fino a oggi sono destinate a scomparire». E sono ispirate alla stessa logica che ha modellato la formulazione del Porcellum e guida le trattative per la riforma elettorale. Accomunate dall’opzione per un meccanismo pienamente proporzionale con voto di lista, integrato da clausole di sbarramento e premi per le formazioni principali, le leggi sul sistema di voto esistenti in Italia a ogni livello istituzionale con l’eccezione dei comuni più piccoli favoriscono la conservazione delle forze politiche, della loro natura e delle loro strutture.

Il proporzionale a cui stanno lavorando Alfano, Bersani e Casini offre un paracadute a tutti, limitandosi a registrare le variazioni percentuali di consenso ed escludendo la vittoria e la sconfitta limpide di schieramenti contrapposti. Un metodo di scrutinio in cui il cittadino sceglie solo un partito e contribuisce a determinare i rapporti di forza, rinviando la formazione delle maggioranze parlamentari e dei governi ai negoziati post-elettorali tra i gruppi politici.

Proporzionale e finanziamento pubblico trovano il loro comune denominatore nel rifiuto della democrazia competitiva favorita dal maggioritario con collegio uninominale. Un regime che mette tutti in gara e in discussione, non offre sicurezza e intangibilità a nessuno, attribuisce agli elettori e non a partiti ago della bilancia il potere di decidere la nascita e la vita degli esecutivi. Una democrazia aperta in cui nessuna formazione è eterna e tutte sono costrette a rinnovarsi o esaurirsi, nella quale non esistono rendite di posizione perché è più importante avere il coraggio di sciogliersi e mescolarsi per dare vita a grandi aggregazioni plurali e laiche. Forse è proprio per questo che l’orizzonte di una riforma elettorale, istituzionale e politica di stampo anglo-americano è scomparso dalla nostra agenda pubblica.  

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