Magari sarà il segnale di una nuova “DotCom Bubble”, come quella esplosa nel 2002 trascinando verso il basso i maggiori titoli IT mondiali, ma la transazione da un miliardo di dollari con cui Facebook ha acquistato Instagram offre molti spunti di riflessione. Instagram è un microbo da tredici dipendenti, che offre un’app iphone per fare foto con filtri particolari. È stata installata su 30 milioni di telefonini, e nelle logiche delle aziende IT, questo spinge le quotazioni alle stelle.
Il nostro interrogativo è se una storia simile, in Italia, potrebbe mai realizzarsi. Prima di esplodere, Instagram ha succhiato soldi da fondi d’investimento come una pompa idraulica. L’investimento iniziale è stato di 500.000 dollari, poi al raggiungimento di 1,75 milioni di utenti ha richiesto altri sette milioni di dollari, fino a un’ultima infusione (un paio di settimane fa) da 60 milioni, guidata da Sequioa Capital – il maggior fondo di capitale d’impresa del mondo.
In Italia manca quasi del tutto un apparato di venture capital di questo tipo. Tale forma di investimento serve a fornire il capitale iniziale alle persone che vogliano aprire una propria impresa, ed è il termometro della “fertilità imprenditoriale” di un paese. In Italia, secondo l’associazione di categoria AIFI, nel primo semestre del 2011 sono state finanziate 50 operazioni di “early stage”, per un totale di 40 milioni di euro.
È tanto? Possiamo fare un paragone con gli americani, i primi della classe. Gli investimenti in venture capital sono stati di 7,6 miliardi di dollari (circa 5,5 miliardi di euro) solo nel secondo trimestre del 2011. Ciò significa che il giro d’affari del venturing americano è pari a circa 260 volte quello italiano, con un’economia che è “solo” sette volte più grande.
Non è un caso che il polso del venturing in Italia sia così debole. Secondo una classifica compilata dall’Università IESE di Madrid insieme a Ernst & Young, l’Italia è al trentaduesimo posto al mondo in termini di attrattività per i nuovi investimenti. La Gran Bretagna è al secondo posto, la Germania al decimo, la Francia al quattordicesimo. In tutta l’Europa occidentale, solo la Grecia è in una posizione peggiore rispetto alla nostra, a parte il Lussemburgo. Si sottolinea il nostro “complicato sistema di tassazione” (forse sarebbe stato troppo difficile spiegare l’IRAP agli stranieri, così come l’anticipo dell’IVA, e la ricerca è stata condotta prima dell’IMU – in bocca al lupo!), oltre al “modello di capitalismo famigliare che ha incontrato i suoi limiti come governance e per il ricambio generazionale”.
Quest’ultimo concetto merita un approfondimento. In Italia ben il 94% delle imprese esistenti è di tipo famigliare. Questo significa che la quasi totalità degli imprenditori lo è per investitura paterna (o raramente materna), mentre il capitale e le strutture per avviare un’impresa provengono dalla fortuna della casa in cui si nasce. Fa pensare il fatto che in Italia esistano pochissime strade alternative per mettersi in proprio.
L’unico spazio libero è lasciato per attività di nicchia, a ridosso dei pochi grandi gruppi o delle realtà aziendali straniere. In questo senso, alcuni dati di Unioncamere ci aiutano a comprendere la situazione. Nei primi sei mesi del 2011, ben 100.000 persone hanno avviato un’attività aziendale in Italia, e di esse il 45% ha meno di 35 anni. I settori privilegiati? Commercio, servizi alle persone, costruzioni e immobiliare. Insomma, visto che di lavoro nelle realtà aziendali più grandi non ce n’è, ci si è concentrati su piccole attività di servizio locale. Negozietti, furgoncini e agenzie immobiliari non salveranno l’Italia. Dalle ambizioni economiche di un piccolo paese che voleva un ruolo nel mondo, si è passati a “Dotto’, guardi qua, il bagno è grande e il salone luminoso”.
È chiaro che ci sono eccezioni nobili di chi riesce a strappare la membrana del matrix italiano ed esprimere un’idea imprenditoriale. Possiamo pensare a Vito Lomele, fondatore di Jobrapido, sito di ricerca di lavoro fondato a Milano nel 2006, oggi presente in 50 paesi e con 30 milioni di visitatori unici al mese. Ci sono poi Alessandro Fracassi e Marco Pescarmona (soci de linkiesta), che con il gruppo Mutuionline fatturavano nel 2009 quasi 48 milioni di euro, per un utile netto di oltre 14 milioni.
Ma pochi casi non definiscono un sistema: in Italia fare impresa è difficilissimo. Lo sanno bene le centinaia di ragazzi italiani che ogni anno lasciano il nostro paese per andare ad aprire un’azienda all’estero. Stefano Mendicino, Daniele Alberti e Michele Mastroianni sono emigrati negli Stati Uniti per aprire il loro sito di comunicazione Vinswer. Lorenzo Thione, di Como, ha traslocato in America e nel 2008 la sua azienda è stata comprata da Microsoft per (si dice) 100 milioni di dollari: la “Powerset” aveva programmato l’algoritmo per “Bing”, il nuovo motore di ricerca di Microsoft.
Proprio l’esperienza di Thione è fondamentale per comprendere il problema. Nei paesi industrialmente più avanzati, il rapporto fra grandi aziende e start-up è di tipo collaborativo, non di diffidenza. Le grandi aziende cercano di trovare l’iniziativa nelle piccole, le finanziano e le aiutano a crescere; se lo ritengono utile, provano ad acquisirle. Una delle possibili strade di successo per una start-up è quella di essere comprata da grandi gruppi. Si prenda il caso di Google: tra gennaio e ottobre del 2011 ha acquisito ben 22 aziende, che spaziavano da un sito di confronto prezzi (“BeatThatQuote.com”) alla guida per ristoranti “Zagat”. Certo, alcune acquisizioni sono state effettuate per limitare l’emersione di pericolosi concorrenti: ma i proprietari di “Admeld”, sito di advertising online, hanno ricevuto 400 milioni di dollari per chiamarsi fuori dal mercato. E cifre simili creano un ciclo virtuoso di iniziativa, coraggio e investimento.
L’Italia, a differenza di altri paesi europei, non è mai riuscita a sviluppare una start-up che sia piaciuta ad aziende come Microsoft o Google. Le 104 acquisizioni realizzate da Google tra il febbraio 2001 e l’ottobre 2011 hanno beneficiato aziende statunitensi, tedesche, australiane, canadesi, brasiliane, svizzere, svedesi, spagnole, finlandesi, coreane, israeliane, britanniche, irlandesi. Tra le acquisizioni di Microsoft figurano aziende romene e belghe. Dove si trova l’Italia? Sempre umilmente assente.
Il limite italiano è anche culturale le start-up sono rischiose, e da noi nessuno vuole rischiare. Si ritiene che un fallimento rappresenti la fine della carriera professionale di un individuo. Negli altri paesi è diverso: il fatto di non essere riusciti ad avere successo è un’esperienza che accomuna moltissimi imprenditori di start-up. Solo una nuova azienda su dodici riesce a sopravvivere al mercato. Si prenda il caso di Brian Chesky e Joe Gebbia, ideatori del sito “Airbnb.com” e oggi milionari. Avevano provato a lanciare il proprio sito già un paio di volte nel 2008, ma non c’erano riusciti: sono con convinzione e audacia, e soprattutto con nuovi investitori, sono riusciti a fondare la miglior start-up dai tempi di Facebook. Airbnb nel maggio 2011 è stata valutata 1 miliardo di dollari.
Non è l’unico caso. Il primo social network della storia si chiamava “SixDegrees.com”, e il suo fondatore Andrew Weinreich ha bruciato qualche decina di milioni di dollari, prima di alzare le braccia e vendere il marchio. Weinreich nel 2006 ha fondato altre aziende, quali “MeetMoi” e “Xtify”, sempre basate su internet, con buon profitto. C’è poi il caso di “Boo.com”, il primo sito di abbigliamento online, che è riuscito a bruciare 135 milioni di dollari in pochi mesi a ridosso del 2000. Uno dei suoi fondatori, Ernst Malmsten, nel 2011 è stato nominato CEO della azienda di prodotti di lusso “Lara Bohinc”: il fallimento è una referenza. Un suo “collega”, il fondatore di “eToys.com” Toby Lenk ha fatto anche di peggio, riuscendo a buttare dalla finestra 166 milioni di dollari. Toby Lenk è oggi presidente del colosso dell’abbigliamento GAP. Come questi, ci sono tantissimi altri esempi.
La condanna del fallimento in Italia ha ragioni culturali: è un impianto di controllo verso chi ha iniziativa. A chi vuol fare impresa, si ricorda subito che è rischioso. Non si parla di visione, opportunità, realizzazione. Si minaccia il fatto che un fallimento equivarrebbe alla miseria: rialzarsi è difficilissimo.
Ci sono poi ragioni regolamentari che impediscono di investire in progetti così rischiosi. Chi finanzia una start-up molto probabilmente non rivedrà più i suoi soldi: come abbiamo visto, li perde in undici casi su dodici. Il caso di successo, però, dovrebbe ripagare tutti gli altri investimenti falliti. È lecito aspettarsi che lo Stato consenta di defiscalizzare gli investimenti in start-up: se non del tutto, almeno del 50%. Ciò significa che il ritorno atteso dell’unica azienda di successo potrebbe essere più alto. Così, un fondo che investe in start-up può affrontare con meno rischi il sostegno a diverse nuove aziende. È qualcosa che in Italia non esiste. In Italia non c’è una “disciplina delle start-up”, com’è presente in Gran Bretagna già dal 1995. In Italia le start-up sono un fastidio.
Le start-up sono l’espressione più alta dell’entusiasmo sociale di un individuo, o di un gruppo di amici, o di una società intera. In Germania i “venturists” di maggior successo sono tre fratelli di Amburgo: Marc, Oliver e Alexander Samwer. All’inizio del 1999 hanno creato il sito di aste online “Alando.com”, dormendo in un camion notte dopo notte, percorrendo i mercatini di tutta la Germania per convincere i venditori a usare il loro portale: sei mesi dopo (sei mesi!) hanno venduto il sito a eBay per 43 milioni di dollari. Hanno continuato: loro è il sito di suonerie “Jamba” (venduto per 273 milioni di dollari nel 2004) e “MyCityDeal”, venduto a GroupOn per 100 milioni. Attualmente stanno provando a lanciare “Wimbu”, un sito simile (forse un po’ troppo simile) ad Airbnb.
I Samwer in Italia non ce l’avrebbero mai fatta, perché il nostro paese, la nostra leadership e il nostro latifondo industriale ha paura della gente nuova, del talento, delle idee. È un gattopardo post-industriale. Come la stantia nobiltà italiana bollava come “parvenu” chiunque tentasse di emergere, i moderni rentier ingabbiano il paese nel precariato e impediscono la libertà d’impresa.
Riconosco che questo discorso non è niente di nuovo: ormai da mesi si parla di “start-up”, ed è notizia recente che il Fondo italiano d’investimento “è pronto ad aprirsi alle start-up” con 50 milioni di euro. Il rischio peggiore è adesso quello di concentrarsi solo sulle “start-up” come soluzione ai mali nazionali. Non ci si può limitare a questo: costringere realtà imprenditoriali a operare con tasse al 68% impedirebbe qualsiasi prospettiva di crescita. Il problema è tutto il sistema, non solo le start-up. Una vera politica dovrebbe riorganizzare la questione imprenditoriale tout-court, per creare valore aggiunto da distribuire con il lavoro. Il resto sono solo tasse.