NEW YORK – Mitt Romney ha vinto in Wisconsin e ha prevalso senza patemi in Maryland e Washington D.C. Con questa tripletta Romney ha quindi raggiunto quota 646 delegati, e il traguardo di 1.144 per agguantare la nomination è vicinissimo. Ormai, l’ex governatore del Massachusetts, è il candidato in pectore.
In Wisconsin il principale sfidante di Romney, il supercattolico Rick Santorum, aveva cercato di strappargli il voto dei “colletti blu” conservatori, gli operai che votano repubblicano per via dei temi sociali. Ma come precedentemente accaduto nelle primarie dell’Ohio, del Michigan e dell’Illinois, Santorum non ce l’ha fatta. Romney ha trionfato, dimostrandosi ancora una volta l’unico candidato possibile per i repubblicani alle prossime elezioni di novembre contro il presidente Barack Obama. Al di là dei festeggiamenti di rito, però, a Romney non mancano ragioni di preoccupazione. Il sistema di questa tornata delle primarie repubblicane (che in molti Stati adotta il metodo proporzionale nell’assegnazione dei delegati), la sua leadership anodina e l’ostinazione dei suoi rivali fanno sì che lo sfibrante circo delle primarie continui.
D’intesa con i suoi strateghi, Romney negli ultimi giorni ha cominciato a ignorare i rivali repubblicani e calibrare i suoi attacchi sul presidente Obama per risultare più “presidenziale” agli occhi dell’elettorato: «Dopo anni spesi circondato da collaboratori in adorazione che ti ripetono continuamente quanto sei straordinario è ovvio che dopo un po’ perdi il senso della realtà», ha detto Romney nel discorso a caldo dopo la tripletta elettorale. «Del resto questo non è un presidente eletto per le sue capacità, ma per la sua personalità e per la sua storia straordinaria. Dati alla mano, però, le politiche economiche di Obama sono state disastrose».
Ma dalle prime offensive di Romney contro Obama traspare la difficoltà nel trovare il registro giusto. Romney a partire dall’estate scorsa si era presentato come l’uomo in grado di creare occupazione alla luce del suo background di businessman. Ma con un’economia in ripresa, questo ritornello suona fuori tempo e stonato. Gli strateghi di Romney hanno provato qualche giorno fa a modulare la sua campagna anche su temi di politica estera, per poi cambiare subito rotta, e ora cercano soluzioni alternative.
Intanto Rick Santorum (che può contare su 272 delegati) nonostante la serata poco incoraggiante non ha intenzione di ritirarsi. Nel suo discorso post-voto pronunciato in Pennsylvania, il suo Stato natale e quello in cui si svolgeranno le primarie il 24 aprile, ha puntato il dito contro l’aristocrazia del partito repubblicano che sceglie a tavolino candidati incoerenti come Romney e non gente dai valori “scolpiti nell’acciaio” come lui, un “repubblicano operaio” figlio di immigrati. E ha ribadito di voler proseguire a oltranza per permettere a tutti gli americani di umili origini di pronunciarsi. «È da loro che arrivano le buone idee», ha sottolineato.
Per le sorti dell’italo-americano sempre più condannato alla sconfitta dal computo dei delegati, molto dipenderà in effetti dalla sfida in Pennsylvania. Se batterà Romney riuscirà forse a ottenere ulteriori finanziamenti e proseguire la campagna poi in Stati come la Carolina del Nord, il Texas e l’Idaho, dove la destra religiosa gioca un ruolo non secondario. Se invece Santorum dovesse fallire l’appuntamento nel suo Stato, la Pennsylvania, non avrebbe molte giustificazioni per restare in gara. Molti peraltro sono scettici su una sua affermazione casalinga. L’ultima volta che il suo nome era su una scheda elettorale in Pennsylvania, nel 2006 quando correva per la riconferma a senatore dello Stato, perse di ben 18 punti – un risultato imbarazzante.
Newt Gingrich resta al palo con 135 delegati ed è da tempo fuori dai giochi. Continua la sua campagna elettorale al piccolo trotto, in compagnia della sua platinata terza moglie Callista Bisek, spendendo gli ultimi soldi del magnate dei casinò Sheldon Adelson. Nei suoi comizi, poco frequentati, si dilunga in lezioni di storia americana, parla di grandi opere (come una fantomatica ferrovia transcontinentale) e di grandi idee (ovviamente le sue). Idee che, dice, nessuno nel suo partito riesce a cogliere.
Infine Ron Paul – predicatore libertario di uno Stato più snello, protagonista di meno guerre, e più rispettoso delle libertà personali dei suoi cittadini – non ha brillato in questa tornata, così come in molte delle precedenti. Il suo computo totale dei delegati ammonta a 51. Eppure, essendo molto seguito dai giovani per le sue posizioni chiare e anticonformiste è riverito da Romney. L’ex governatore del Massachusetts non può prescindere dai voti dei suoi entusiasti sostenitori. La soluzione Ron Paul per la vicepresidenza è suggestiva ma improbabile. Dati i buoni rapporti personali tra i due, però, alcuni osservatori ipotizzano un qualche ruolo di Paul nell’eventuale amministrazione Romney.