Meno tasse e tagli alla spesa? Basta prese in giro

Meno tasse e tagli alla spesa? Basta prese in giro

La risoluzione con cui Pdl, Pd e Terzo Polo hanno accompagnato ieri l’approvazione del Documento Economico-Finanziario del governo è apprezzabile, e insieme è una solenne presa in giro. Così funzionava l’Italia della destra e della sinistra. Allo stesso modo, purtroppo, quella dei tecnici. E una presa in giro è tanto più abominevolmente sanguinosa, quanto più incide una ferita aperta. 

La risoluzione richiama energicamente il governo di emergenza al punto di fondo finora trascurato. L’appello a concentrare tutte le iniziative possibili sulla crescita economica si coniuga infatti con un netto richiamo a significative riduzioni della spesa pubblica attraverso la spending review, riduzioni che vengano sommate al gettito riscosso da evasione fiscale per coprire  contestuali abbattimenti della pressione fiscale sull’Italia “legale”, asfissiata da una crescente e vieppiù intollerabile pretesa da parte dello Stato. Trattandosi di una mera risoluzione, però, è come fosse acqua fresca. Non succederà nulla. Quel che è peggio, significa che la politica ha perfettamente chiaro l’errore di fondo della politica di bilancio. Ma si limita a dire a Monti «ora te l’ho detto eh, poi fai tu».

A questa risoluzione si è verosimilmente giunti per tre ragioni diverse. La prima è che in 5 mesi la maggior delusione del governo Monti è rappresentata proprio dalla mancata indicazione di quei 5-6 punti di Pil di spesa pubblica da tagliare in un triennio – come hanno fatto altri grandi Paesi prima della crisi, come Germania e Svezia – in modo da aprire spazi a parità di equilibrio di bilancio per allentare un pressione fiscale record. Le recenti ammissioni di Piero Giarda, al quale la spending review era stata affidata, che al più ne verrà solo una mera manutenzione della spesa, abbatte ulteriormente fiducia e aspettative su consumi e domanda interna: perché confermerebbe il poco invidiabile primato italiano, quello cioè del Paese europeo che attualmente effettua la sua manovra di rientro basandosi per oltre due terzi solo su più elevate imposte, partendo da una situazione in cui esse sono già molto più alte della media europea.

La seconda ragione è che finalmente i partiti sembrano trovare la forza di indicare una via alternativa per l’abbattimento del debito pubblico in modo non recessivo: non più attraverso inasprimenti fiscali a spesa invariata, bensì con energiche cessioni dell’attivo pubblico, a cominciare dai 500 miliardi – a valori non di mercato – già censiti nell’attivo patrimoniale del tesoro e liberi da vincoli (nessuno pensi che si tratti del Colosseo, monumenti o parchi, in altre parole). Tale linea è di elementare buon senso: è col patrimonio che si affronta un problema patrimoniale come il debito, mentre il conto economico va tenuto in equilibrio al più basso livello efficiente di spesa e tasse per non ostacolare la crescita. Eppure è anch’essa mancata dalle intenzioni e dalle iniziative del governo Monti. Come per altro anche dalle richieste dei partiti, sin qui.

Infatti, il terzo elemento che spiega la risoluzione di ieri è rappresentato dal fatto che, in realtà, i partiti smentiscono innanzitutto se stessi. Prima dei cinque mesi di governo tecnico, sono stati gli anni precedenti governati da destra e sinistra ad aver sempre inseguito gli aumenti di spesa corrente con più tasse, senza mai cedere asset pubblici per diminuire il debito. Sotto il morso degli spread, gli errori di quella politica ventennale si tramutano in una vera e propria moria di imprese e nell’abbassamento del reddito disponibile delle famiglie. Dipende da questo – e dalla bassa produttività accumulata in 15 anni – la peggior performance dell’economia italiana rispetto ad altri Paesi europei.

Oggi, i sondaggi in calo dei partiti in vista delle amministrative, per la protesta e la sofferenza vivissime espressi da lavoratori dipendenti e artigiani, commercianti e partite Iva oltre che da imprese di ogni tipo, un calo di fiducia che si tocca con mano anche nei consensi a Monti, producono finalmente l’effetto di una prima inversione di marcia. Ma naturalmente ai partiti interessa solo mettere Monti in mora: mica hanno davvero contestato e riscritto dalle fondamenta quel che c’è scritto nel DEF, che è tutt’altro. Una commedia, purtroppo.

Nelle stesse ore, l’enfasi – invero un po’ eccessiva, l’ego professorale continua a montare – con cui Monti, a Bruxelles, rivendicava addirittura di aver “imposto” il tema della crescita nell’agenda europea. Per i gongolii della stampa mainstream antigermanica, viene così assecondata l’idea che la Germania sia sempre più sola nella sua richiesta di rigore, dopo la crisi del governo olandese, la vittoria di Hollande che si profila in Francia, le difficoltà crescenti spagnole e portoghesi. Sarebbe meglio essere realisti: prima che si vedano effetti sulla recessione italiana dell’apertura a più concorrenza e più import della Germania, o di eventuali eurobond per finanziare infrastrutture, passerà lungo tempo.

Invece è il fisco la leva più immediata per determinare conseguenze di rilancio di redditi per lavoro e impresa, consumi e investimenti. Dunque, invece di attendere la crescita che viene dall’Europa, per l’Italia la sua spesa pubblica e le sue entrate monstre sono il problema numero uno da affrontare, se non vogliamo che il reddito delle famiglie in termini reali e a parità di potere d’acquisto arretri alle condizioni di 30 anni fa, da quasi 20 dove è già ridotto oggi.

Da un recente studio Eurostat ieri rielaborato dall’Istituto Bruno Leoni, la conferma che nel 2010 la pressione fiscale italiana era già di 5 punti percentuali superiore alla media comunitaria. Un gap in via di ulteriore peggioramento di un altro punto e mezzo, per le misure assunte nel 2011 da destra e tecnici. Rispetto all’Europea tassiamo meno i consumi e molto di più il lavoro e le imprese. L’Italia ha la seconda aliquota implicita sul reddito d’impresa più alta d’Europa, 9 punti sopra la media. Sul lavoro incide un’imposta del 42,6% che crescerà con la riforma Fornero, contro una media europea del 32,9% che è invece in calo.

Per questo Mario Draghi, due giorni fa, ha lanciato un monito a Monti. Tasse e spesa pubblica devono scendere e di molto, per crescere. Che non si possa fare, o che si tratti ancora di studiare come, sono penose frottole per chiunque segua da anni la finanza pubblica italiana ed europea. A patto di non voler tutelare le vastissime sacche di inefficienza del nostro settore pubblico. La spesa per welfare italiana è meno della metà della spesa pubblica totale, dunque è falso che tagliar spesa significhi tagliare servizi. Soprattutto, l’Europa è piena di buoni esempi da seguire.

Ricordava ieri Tobias Piller, corrispondente della Frankfurter Allgemeine in Italia, l’esempio che in Germania, dei 3 Laender che tengono da anni il bilancio a deficit zero: la Baviera sotto il centro destra dal 2006, la Sassonia anch’essa di centro destra dal 2006, il Mecklenburg-Vorpommern governato invece dalla sinistra. La Sassonia, con un bilancio intorno a 15 miliardi, spende meno di 4 miliardi per personale e quasi 3 miliardi per investimenti, e il deficit è rimasto zero anche negli anni di crisi. Hanno pressione fiscale di oltre 4 punti inferiore alla nostra, eppure  hanno continuato a tagliare spesa, riducendo sedi, uffici, personale.

In Italia, sotto Draghi lo ha fatto la Banca d’Italia. Lo Stato, al contrario di quanto molti dicono, è riuscito a malapena a diminuire il tasso di aumento della spesa, tagliando le Autonomie. Far diminuire la spesa pubblica per meno tasse e più crescita, resta tutto da fare. Prima che sia troppo tardi. Purtroppo, sembra proprio che non avverrà. Chissà se è davvero matura, una forza politica nuova e minoritaria, che si batta per questo obiettivo prioritario, con poche persone credibili per titoli, conoscenza e valori. Ce n’è un sempre più disperato bisogno.

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