Niente esoneri a raffica, risse tra compagni o ritiri in montagna. A Charlotte le sconfitte si accumulano con serenità. Con l’ultima, contro i Bulls, fanno 18 in fila, un record negativo per la squadra. Di questo passo il rischio è finire diretti nel bestiario dell’Nba. Il bilancio ora è 7 vittorie e 54 sconfitte, 0.115 la media in millesimi, come la misurano dall’altra parte del’Oceano. La più bassa della storia? 0.110, Philadephia 76ers, stagione ‘72-‘73: perdendo le ultime cinque partite in calendario i Bobcats farebbero peggio. La dirigenza tace e, a noi abituati alle sfuriate di Zamparini, può sembrare un nobile tentativo di lasciare i giocatori soli con il proprio orgoglio. Strano però, visto che al vertice dei Bobcats, da qualche anno, c’è un uomo che palla in mano è stato il più vincente di sempre: Sua Maestà Michael Jordan.
Per MJ quella a Charlotte è la seconda incarnazione da dirigente. La prima, ai Washington Wizards, era finita male. Arriva il 19 gennaio 2000, un anno esatto dopo il ritiro, con una quota della proprietà e l’ultima parola su tutte le decisioni di basket. «The best of the best», lo definisce l’allora presidente Abe Pollin, decano dell’Nba. «Elettrizzerà la città e insegnerà ai nostri bambini cosa vuol dire essere un executive», gli fa eco il sindaco della capitale, per nulla preoccupato che Jordan segua la squadra dalla sua casa di Chicago, a più di mille kilometri di distanza.
Mandare via i veterani strapagati e rifondare la squadra: per i derelitti Wizards la strategia non sembra male. E la prima parte a Jordan riesce: Rod Strickland e Juwan Howard, indisciplinati e poco amati dal pubblico, sono scambiati sul mercato. Poi però sono solo errori. Il primo: chiamare in panchina Leonard Hamilton, suo vecchio allenatore al college. “Ha vinto con me, vincerà anche con loro”, pensa Jordan. Già, ma loro non sono Jordan. Risultato: 19 vinte e 63 perse, con Hamilton esonerato a fine stagione. Il secondo, ancora più grave, è al draft, il rito con cui ogni anno le squadre Nba scelgono un giovane giocatore da portare nella Lega. Washington parla per prima e Jordan stupisce tutti chiamando Kwame Brown, un ragazzo appena uscito dal liceo. Oggi è considerato il più grande bust, bidone, della storia Nba. In quel draft, tanto per dire, erano disponibili anche Pau Gasol e Tony Parker, che negli anni successivi avrebbero vinto titoli su titoli.
Non resta che scendere in campo. Nell’estate del 2001 Jordan chiama ai Wizards Doug Collins, il suo primo allenatore nell’Nba. Ma la notizia è che Air ha ripreso ad allenarsi: a ottobre è pronto a tornare sul parquet. Conservando anche il ruolo da dirigente, ben inteso. Prima stagione male, complice un infortunio al ginocchio. La seconda è l’ultima possibilità, Jordan lo sa: vuole portare Washington ai playoff, dove non arrivano da molti anni. Ma c’è bisogno di compagni più forti, così usa il monte ingaggi per raccattare quel che offre il mercato: qualche veterano a fine carriera, il talento grezzo di Larry Hughes. Manda il giovane di belle speranze Richard Hamilton a Detroit – dove qualche anno dopo avrebbe vinto il titolo – in cambio del più affermato, e usurato, Jarry Stackhouse. In campo le cose non decollano, poca chimica in una squdra assemblata in fretta. Così, nonostante Jordan a 40 anni faccia ancora la differenza, Washington non si qualifica per i playoff. Fuori dal campo, però, è anche peggio. MJ insulta i compagni per il loro scarso impegno, dice che lo spogliatoio «puzza». «I ragazzi si rilassano solo quando lui torna in ufficio», gli risponde Stackhouse.
A fine stagione Jordan vorrebbe tornare direttore sportivo a tempo pieno. E invece il presidente dei Wizards lo licenzia. Con addosso la canottiera da gioco, Air ha garantito il tutto esaurito alle partite, dando aria ai bilanci della società. Ma le fratture nello spogliatoio e tra i dirigenti sono insanabili. «L’unica cosa che ha fatto bene è giocare», scrive il columnist del Post Thomas Bosweel. Ancora più secco un giornalista di Espn: «Ha trasformato i Wizards da un casino largamente ignorato a uno molto conosciuto». Una squadra da ricostruire, Washington ci metterà qualche stagione.
Per tre anni poi è solo golf, sigari e beneficienza. Fino al 2006, quando d’intesa con il proprietario Robert Johnson, fondatore di Black Entertainment Television, MJ arriva a Charlotte. Sempre lo stesso copione: una fetta della proprietà e il potere assoluto sulla gestione sportiva. La squadra è debole, ma con qualche buon giovane. Per completarla c’è sempre il draft, Charlotte sceglie per terza. E Jordan sorprende ancora tutti, chiamando il capelluto e baffuto tiratore californiano Adam Morrison. Aspetto da hippy e stile di gioco non dissimile, molto poco agonistico; oggi presta servizio al Besiktas, in Turchia. La stagione finisce 33 vinte e 49 perse, 32 e 50 la successiva.
Urge una svolta. Jordan alza la cornetta e chiama in panchina Larry Brown. Uno dei coach con più vittorie nell’Nba, campione con i Pistons quattro anni prima. Brown ha pugno di ferro e il pallino della difesa, così Jordan adatta la squadra alle sue esigenze. Dall’anno successivo, complice l’arrivo del realizzatore Stephen Jackson, i risultati si vedono. Nel 2010 i Bobcats chiudono la prima stagione vincente della loro storia: 44 e 38. Perdono al primo turno dei playoff, 4-0 dagli Orlando Magic, ma esserci arrivati è già un risultato. Nel frattempo Jordan si è comprato tutta la squadra, compresi i 150 milioni di dollari di debiti. È il primo ex giocatore Nba a diventare proprietario.
Sembra l’inizio di un percorso. E invece durante l’estate qualcosa si rompe. Il playmaker titolare, Raymond Felton, non rinnova il contratto. I modi bruschi di Brown non hanno più presa sulla squadra, che comincia la stagione con 9 vittorie e 19 sconfitte. Il coach si dimette e Jordan lo sostituisce con Paul Silas, altro allenatore veterano, ma molto meno vincente. A metà campionato, per ridurre i salari e abbassare i debiti, Jordan manda via anche Gerald Wallace, capitano e bandiera della squadra. «Non è un giorno di gioia», commenta Silas. In un clima di smobilitazione generale la stagione finisce 34 vinte e 48 perse, anche se Jordan promette colpi di mercato durante l’estate.
E invece a settembre se ne va anche Stephen Jackson, il miglior marcatore della squadra. Jordan l’ha scambiato con la scelta numero 7 al draft, con cui chiama il congolese Bismack Biyombo, giocatore promettente ma tutto da costruire. Come il playmaker che i Bobcats scelgono al numero 9, Kemba Walker. È il presente, una stagione disgraziata in cui Charlotte non vince mai, guidata da un allenatore sicuro di partire a fine anno. Inizio male e continua peggio, con il palazzetto deserto e le 18 sconfitte di fila.
Ora per la squdra di Michael Jordan c’è il record di Philadelphia da scongiurare. Pensare che da giocatore, con i suoi 6 titoli, MJ i record li ha riscritti quasi tutti, ma in positivo. Per evitare la vergogna basta vincere una partita: la grande occasione sarà domenica notte quando Charlotte ospiterà i Sacramento Kings, che a questa stagione non hanno più nulla da chiedere. Poi in estate, MJ dovrà cercare di trasformare il suo cantiere in una squadra. Al draft i Bobcats saranno ancora tra i primi a scegliere, con un’infornata di giocatori promettenti in uscita dal college. Ma visti i precedenti nulla è scontato. E vedendolo schiacciare ancora in allenamento, a un passo dai 50 anni di età, molti pensano che Sua Maestà sarebbe ancora più utile in campo.