La tragedia. La disperazione. Le imprecazioni. Il pianto. Lo sgomento. La rabbia. «E con la rabbia arriva di tutto il resto: soprattutto le accuse. Non si accetta la morte. Soprattutto se si è giovani e sportivi. Perché nel nostro Paese passa il concetto che chi è sportivo è automaticamente immortale. Ma non è così, purtroppo. Quello che però prima dobbiamo chiederci è: quante vite sono state salvate prima di questa ennesima terribile tragedia? Quanti Domenico Fioravanti, grande campione del nuoto (durante la preparazione per i giochi olimpici di Atene 2004 gli fu diagnosticata una ipertrofia cardiaca. A scopo precauzionale gli fu quindi impedito di proseguire l’attività agonistica, ndr) sono stati invitati a cessare l’attività? Poi è giusto capire, perché ciò accade e sta accadendo con preoccupante regolarità: ultimo il povero Piermario Morosini».
A parlare è il dottor Roberto Corsetti, 52 anni, specialista in Cardiologia e in Medicina dello Sport, direttore del Centro Medico B&B di Imola, responsabile sanitario della Liquigas-Cannondale, la squadra di Ivan Basso e Vincenzo Nibali, nonché presidente della Associazione Italiana Medici del Ciclismo (A.i.Me.C.). «Basta pianti e piagnistei che durano 24 ore, o al massimo qualche giorno. Lo ripeto, la medicina sportiva ha vinto tantissime battaglie, anche se ultimamente ne sta perdendo qualcuna di troppo. Del caso del povero Morosini non posso assolutamente parlare, voglio però cogliere l’occasione per fare un ragionamento più ampio e generale sulle morti improvvise e sulle visite di idoneità che riguardano tanti cittadini e moltissimi nostri ragazzi. La morte cardiopatica improvvisa nei giovani, apparentemente sani, è un fenomeno che colpisce ogni anno più di mille giovani di età inferiore ai 40 anni e 8 donne su 100 mila tra i 30 e i 45 anni. Quindi si tratta di un fenomeno importante anche perché drammatico. L’antidoto vero e unico è la prevenzione».
Nel nostro Paese cosa si fa?
«L’Italia è uno dei pochi paesi europei che si è data una precisa normativa a riguardo e, pertanto, secondo quanto dettato da una normativa di legge dal 1982, tutti gli individui che praticano attività sportiva a livello agonistico e anche a livello non agonistico la prevenzione devono farla obbligatoriamente attraverso quella che noi tutti conosciamo come la visita di idoneità allo sport agonistico e/o non agonistico. Al contrario in altri paesi tale obbligatorietà e quindi tale strumento preventivo è assente (Inghilterra, Olanda, Spagna, Stati Uniti, ndr). Quindi, in momenti come questi, dobbiamo inviare messaggi chiari che valorizzino la necessità di visite preventive perché è probabilmente tra questi sportivi che si annidano i casi più frequenti di persone che non effettuano la visita o che non la effettuano nella maniera più corretta. I maggiori sforzi devono essere diretti nella direzione di quanti pratichino attività sportive a livello ludico-ricreativo e/o entry level, attività per le quali, spesso, non viene richiesta nessuna certificazione ma che ugualmente sono ad alto rischio, specie se trattasi di discipline sportive ad elevato impegno cardiovascolare».
Ci faccia un esempio.
«Un lavoratore di 45 anni che ha una vita molto stressante perché svolge un’attività lavorativa molto piena e stressante, che ha una famiglia, dei figli, che ha degli obblighi e delle responsabilità, decide di incominciare a praticare il ciclismo. Il ciclismo non è certo lo sport più semplice. Probabilmente per noi che lo amiamo è il più bello; sicuramente fa molto bene ma non a tutti in maniera indiscriminata. Noi, però, sappiamo anche che è tra i più impegnativi a livello cardiovascolare. Non è corretto affermare che la pratica non agonistica del ciclismo sia di gran lunga meno impegnativa per il cuore rispetto all’agonismo. Se un individuo non allenato, non sottoposto a nessun controllo medico preventivo, specie se in età adulta, matura e/o avanzata e soggetto a stress per le responsabilità professionali e familiari, decide di andare a scalare una qualsiasi salita impegnativa anche a ritmo lento, il suo cuore viene sempre e comunque sottoposto ad uno sforzo importante. Se l’organo non è in salute l’individuo, è cosa certa, corre un potenziale rischio».
Cosa si può fare?
«Innanzitutto ci dobbiamo tutti rimboccare le maniche. Cominciamo a considerare che in Italia, se è vero che esiste una normativa che tutela le attività sportive e la salute degli sportivi agonisti e non, è altrettanto vero che tale normativa è stata emanata nel 1982 e non è mai stata cambiata nemmeno di una virgola. Dal 1982 ad oggi sono passati 30 anni e la scienza ha fatto passi da gigante. Le acquisizioni in ambito medico sportivo sono cambiate e migliorate in maniera evidente e sensibile. Probabilmente è arrivato il momento di rivedere quella normativa e di rivederla in maniera profonda. E ancora. Le visite di idoneità sono obbligatorie. Ma vengono realmente effettuate da tutti coloro che hanno l’obbligo di effettuarle? Siamo certi che questo accade?».
Perché, non è cosi forse?
«Difatti non è così. L’attuale normativa lascia la responsabilità dell’effettuazione della visita al presidente della società dell’atleta o al presidente del circolo sportivo o della palestra nella quale l’individuo pratica l’attività. Ciò cosa vuol dire? Che, ad esempio, il presidente di una società all’inizio dell’anno prima di richiedere il tesserino per i suoi atleti è tenuto ad essere in possesso dei certificati di idoneità di tutti gli atleti. Il decreto recita infatti che il Presidente può fare richiesta di tesseramento solo per gli atleti per i quali sia in possesso di un regolare e valido certificato di idoneità. Così per tutte le discipline e attività sportive a qualsiasi livello esse vengano praticate. In realtà, sembra, ci siano molti presidenti, soprattutto nel centro-sud, che tale norma o non la conoscono oppure, pur conoscendola, la sottovalutano non rendendosi conto dell’enorme responsabilità civile e penale che si assumono. E’ verosimile poter ritenere, se ne è quasi certi, che in Italia non vengano effettuate tutte le obbligatorie visite di idoneità allo sport».
Addentriamoci un po’ di più nel problema specifico della tutela della salute degli sportivi.
«Dimentichiamo spesso e troppo facilmente che in Italia la causa più frequente di morte nei soggetti che hanno superato i 35 anni di età, in tutti i soggetti sportivi e non, è la patologia cardiovascolare; non le neoplasie (tumori) e tantomeno l’aids. I mass media, negli ultimi decenni, stanno trasmettendo un messaggio che può essere fuorviante, cioè che le maggiori attenzioni in ambito di controlli preventivi debbano essere rivolte all’abbattimento del rischio di potersi ammalare di tumore o di aids. Non è così. La causa più frequente di malattia e di morte è rappresentata di gran lunga dalle patologie cardiovascolari. Ciò deve essere fatto passare per via mediatica in maniera insistente, diretta e più convincente. Incredibilmente, poi, sulle malattie cardiovascolari, sull’ infarto, sulla morte improvvisa aritmica, i controlli preventivi possono garantire un grande successo, molto più grande di quanto può fare la prevenzione in ambito di tumori o altro. Si pensi che basterebbe effettuare un test da sforzo massimale al cicloergometro a tutti i soggetti di sesso maschile che hanno superato i 40 anni e a tutti i soggetti di sesso femminile che hanno superato i 47-48 anni per ridurre prepotentemente e in maniera significativa l’insorgenza dell’infarto miocardico e della morte improvvisa aritmica».
Perché questo messaggio non passa?
«Non vorrei che il motivo possa essere quello che tutti si affretterebbero a prenotare un test da sforzo e che, inevitabilmente, prenotazioni di massa potrebbero far scoprire che le capacità di soddisfare tali prenotazioni nell’ambito del servizio sanitario pubblico non esistono e non esisteranno, considerata la crisi. Tutto ciò riveste poca importanza se l’obiettivo è quello di tutelare la salute degli individui e degli sportivi. Dobbiamo tracciare una via nuova e quella via la dobbiamo percorrere fiduciosi soprattutto perché in Italia esiste una normativa che rende obbligatorio effettuare una visita e alcuni esami strumentali specifici contemplati in quella visita».
E nei Paesi che invece quella obbligatorietà non la prevedono i ricercatori cosa dicono?
«I medici ricercatori nei paesi europei ed extraeuropei che non prevedono l’obbligo della visita di idoneità ci criticano. Lo fanno da anni, dicendo che non vale la pena effettuare più di un milione di visite di idoneità, con costi quindi molto importanti, per salvare la vita di pochissime persone. Siamo criticati perché, a loro avviso, il nostro sistema di prevenzione è inefficace per quanto riguarda il rapporto costi-benefici».
Lei a proposito cosa pensa?
«Io vengo da una famiglia cattolica, ho conseguito la laurea e le specializzazioni in Cardiologia e in Medicina dello Sport presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. È chiaro quindi che, a mio parere, bisogna fare tutto quanto è umanamente possibile per salvare anche solo una vita umana e pertanto sono assolutamente favorevole all’esistenza di una normativa che preveda l’obbligatorietà delle visite di idoneità».
È favorevole in modo incondizionato?
«Assolutamente no. Bisogna rivedere in tempi rapidi ed in maniera profonda tutto l’impianto normativo della tutela della salute degli sportivi in Italia. Una normativa nuova, applicata in modo preciso e circostanziato su tutto il territorio nazionale, è la vera necessità del momento».
Quante visite di idoneità agonistiche si effettuano in Italia?
«Non si sa con precisione».
Orientativamente quante visite di idoneità non agonistiche si effettuano in Italia?
«Ancor di più non se ne può conoscere il numero. Con la nostra normativa, vecchia di 30 anni, ci proponevamo l’obiettivo di evitare eventi drammatici e impedire che potessero praticare attività sportiva soggetti che, per la presenza di specifiche patologie, non erano in condizioni di poterlo fare senza correre rischi più o meno importanti. Se davvero si vogliono raggiungere tali obiettivi, il segreto sta nel conoscere perfettamente il nemico che vogliamo sconfiggere. Se vogliamo decapitare la morte improvvisa da sport, dobbiamo sapere quali sono le patologie che innescano quell’evento drammatico, come si presentano, che segni e sintomi danno, come si possono prevenire nell’ambito delle visite di idoneità. Dobbiamo conoscere quali segni clinici devono rivestire più valore rispetto ad altri e a quali sintomi è necessario dare la giusta importanza. Dobbiamo studiare il fenomeno e conoscerlo meglio. Attualmente stiamo facendo molto poco in tal senso. In Italia non abbiamo un osservatorio statistico ed epidemiologico della tutela della salute delle attività sportive, perché non sappiamo quante visite realmente vengono effettuate, quante persone vengono considerate inidonee, per quali patologie risultano inidonee, in quali regioni piuttosto che in altre, in quale categoria di sportivi (età, sesso, livello di pratica, fattori di rischio etc.)».
È grave. Come si può risolvere una simile problema?
«E’ necessario utilizzare l’informatica. Da anni, credo almeno cinque, propongo l’adozione di un software unico che venga utilizzato da tutti i Medici dello Sport che in Italia rilasciano certificati di idoneità, sia in ambito pubblico che in quello privato. Un unico software utilizzato in tutti i comuni, le province e le regioni e, pertanto, in tutti gli studi e gli ambulatori accreditati ad effettuare visite di idoneità».
Quali sarebbero i vantaggi utilizzando uno strumento informatico di questo tipo?
«Utilizzando un’ottima base informatica, quindi in grado di fare statistica, finalmente potremmo conoscere il fenomeno e avere anche più possibilità di controllare il sistema ed evitare quanto prima avevamo descritto non essere del tutto regolamentare. Sarebbe fantastico poter studiare, dal punto di vista statistico ed epidemiologico, tutte quelle patologie che possono, con la pratica delle attività sportive, portare ad eventi drammatici o comunque al peggioramento dello stato di salute dell’ individuo».
Un obiettivo del genere è costoso?
«Assolutamente no».
Cosa fare ancora?
«Ritengo sia arrivato il momento di rivedere la normativa del 1982. Trent’anni sono tanti, per la scienza medica un tempo infinito. Se ricordo cosa era la medicina trent’anni fa e cosa è oggi mi vengono i brividi nel pensare che stiamo ancora attuando un decreto legge del 1982. Va rivisto. E, gioco forza, va data una importanza preponderante nell’ambito della visita all’aspetto cardiologico. Anche se attualmente non disponiamo di dati su scala nazionale, la quasi totalità delle motivazioni di inidoneità assoluta e/o temporanea all’attività sportiva in Italia è rappresentata da una patologia cardiovascolare. Quindi il cuore deve diventare l’obiettivo primo delle nostre indagini. La normativa va riconsiderata proprio alla luce di tale dato di fatto».
Rivedere la normativa, dunque, come primo passo. Qualche esempio?
«Allo stato attuale, in Italia, è possibile che un’atleta ciclista agonista di categoria juniores internazionale (17-18 anni) possa avere il tesserino come ciclista agonista, fare oltre 60 gare all’anno e tutti gli allenamenti necessari, avendo eseguito la visita di idoneità semplicemente con un elettrocardiogramma a riposo ed un altro effettuato dopo che per tre minuti l’atleta è salito e sceso da un gradino di 40 cm. Dal momento in cui l’atleta termina l’esercizio, prima che possa essere effettuato il secondo ecg, passa sempre tutto il tempo necessario perchè egli si riposizioni sul lettino e il tempo che occorre al medico per riposizionare sul torace e sugli arti tutti gli elettrodi. In pratica quel soggetto potrà essere riconosciuto idoneo avendo fatto due elettrocardiogrammi. Il primo assolutamente a riposo, il secondo quasi a riposo perché è intuitivo che un atleta di quel livello, trascorso più di un minuto dalla fine dello sforzo, ha perfettamente recuperato e quindi è nuovamente tornato in condizioni quasi sovrapponibili al riposo iniziale. Troppo poco impegnativo il test e troppo il tempo dalla fine del test all’esecuzione del secondo ecg, quello dopo sforzo. L’attuale normativa consente di fatto che un atleta agonista di categoria elevata possa affrontare uno sport ad elevato impegno cardiovascolare facendo due elettrocardiogrammi in condizioni di riposo o quasi. Rinunciamo a vedere e valutare, con questo sistema di cose, tutto quello che accade durante lo sforzo, il momento più delicato e nel quale più spesso si slatentizanno segni elettrocardiografici importanti. Lo sforzo imposto dalla normativa attuale, lo step test che prevede di salire e scendere da un gradino per tre minuti, per tantissimi atleti, quasi tutti direi, è insufficiente. Si tratta di una scelta normativa molto discutibile sotto il profilo scientifico e delle attuali conoscenze di prevenzione delle patologie cardiovascolari».
Lei in particolare cosa propone?
«Propongo innanzitutto, insieme ad altre cose che non è il caso di approfondire per ovvie questioni di spazio, che sia al più presto reso obbligatorio l’effettuazione di una visita preventiva che comprenda una prova sotto sforzo, nella quale pertanto venga esaminato durante e non solo alla fine dello sforzo, sia l’andamento dell’elettrocardiogramma che quello della pressione arteriosa. Una visita comprendente una vera prova da sforzo dovrà essere effettuata da tutti i praticanti, sia a livello agonistico che non agonistico, qualsiasi tipologia di disciplina sportiva».
A questo punto il medico che effettua una visita del genere deve avere grosse competenze cardiologiche?
«E’ essenziale. Ritengo, pur riconoscendo che forse questa frase può far male a qualcuno, che in Italia non possano rilasciare certificati di idoneità colleghi che non abbiano conoscenze valide e profonde di cardiologia e di cardiologia dello sport in particolare. Le scuole di specializzazione dovrebbero pertanto adeguarsi a tale specifica esigenza. Attualmente non per tutte è così».
E per il futuro lei a cosa pensa?
«Ritengo che sia opportuno inserire il sistema che io definisco della “split decision”. Un sistema che deve diventare operativo in tutti i casi dubbi, anche solo minimamente dubbi. Intendo riferirmi a tutte quegli sportivi che presentino piccoli segni o sintomi di possibile cardiopatia, che abbiano subito qualsiasi tipo di intervento cardiaco o che mostrino dubbi diagnostici di tipo cardiovascolare. Per tutti costoro dovrebbe essere stabilito che la rituale visita di idoneità possa essere effettuata in futuro solo ed esclusivamente in centri medico sportivi di secondo livello, centri diretti, quindi, da un cardiologo con competenze elettive di cardiologia dello sport».
Che cosa intende per secondo livello?
«Le visite di idoneità allo sport agonistico e non in Italia possono, e dovrebbero anche in futuro, essere effettuate sia nel pubblico che nel privato, sempre in presenza di uno specialista in medicina dello sport e all’interno di uno studio e/o di un ambulatorio accreditato. Tali caratteristiche sono richieste e dovranno essere richieste anche in futuro alle visite di primo livello. Lo studio e/o l’ambulatorio in cui si svolge la visita dovrà essere in possesso della dotazione strumentale che è necessaria a rispettare la normativa vigente. Quando ci si trovi di fronte ad un soggetto che presenta dubbi diagnostici, tale visita di idoneità non la potrà e non la dovrà effettuare il Medico dello Sport che lavora in un centro di primo livello, ma essa dovrà essere rimandata all’analisi critica di un centro di secondo livello, nella quale cioè sia possibile effettuare un ecocardiogramma color doppler, un Holter ecg delle 24 ore, un Holter pressorio e, in genere, esami cardiologici strumentali approfonditi. Chiaramente sarà necessario che il centro di secondo livello debba essere necessariamente diretto da un Medico dello Sport con una Specializzazione aggiuntiva in Cardiologia o viceversa».
E il terzo livello?
«Costituirà l’apice della piramide e rappresentato da quelle strutture pubbliche o private che siano in grado di effettuare esami invasivi come ad esempio un esame coronarografico, un cateterismo, uno studio endocavitario, quindi esami cardiodiagnostici invasivi».
Ricapitolando, anche alla luce della drammatica morte di Morosini, l’Italia è all’avanguardia nella prevenzione ma deve fare molto di più…
«Ci vuole una nuova legge. Occorre una presa di coscienza da parte dei cittadini/atleti e delle loro famiglie. Anche gli stessi miei colleghi devono pretendere di più e fare tutto il possibile per migliorare questo stato di cose. Poi, nel caso specifico delle morti improvvise, non bisogna mai trascurare l’aspetto ereditario (Morosini aveva un papà morto d’infarto, ndr): queste cose incidono profondamente. Ci vuole quindi un osservatorio epidemiologico di quanti eventi drammatici si sono verificati. Noi medici dobbiamo conoscere i nomi e i cognomi del nostro nemico. Nel nostro Paese c’è ancora tanta approssimazione, è spero che questo “chiuso per lutto” imposto dal mondo del calcio possa servire a qualcosa. Spero che la morte di Morosini serva a far fare un salto in avanti a tutti. Se questo avverrà, la morte di questo povero ragazzo sarà servita a qualcosa. Se non ne approfitteremo, sarà l’ennesima occasione persa, fino alla prossima morte improvvisa, che a molti potrà sembrare priva di senso, ma un senso ce l’avrà eccome».
* Direttore di tuttoBICI e tuttobiciweb.it
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