“Non c’è solo il debito, il governo dimentica la crescita”

“Non c’è solo il debito, il governo dimentica la crescita”

Quanto dista il Monti accademico dal Monti Presidente del Consiglio? Se la politica è per definizione l’arte del compromesso, in che modo la storia, il curriculum e gli studi del professore bocconiano ne stanno influenzando l’azione di governo? Linkiesta ha sentito alcuni economisti per capire come giudicano l’operato del loro ex collega passato alla guida di un esecutivo “tecnico”. La seconda intervista della serie è a Stefano Lucarelli, docente di economia monetaria internazionale all’Università di Bergamo

Qualche giorno fa Mario Monti ha detto che la riforma del lavoro porterà crescita e occupazione. Qual è il retroscena accademico di questo slogan politico?
Si potrebbe rispondere a questa domanda rifacendosi alla versione tradizionale della teoria del mercato del lavoro neoclassica, per intenderci quella che John Maynard Keynes sottopone a critica nel 1936 e che in effetti si ritrova spesso nei manuali dei corsi introduttivi alla scienza economica: esiste un livello naturale del salario, in corrispondenza del quale si ha piena occupazione della forza lavoro, piena utilizzazione della capacità produttiva, e – data la quantità di moneta – il più basso livello dei prezzi. Ne segue che qualsiasi tentativo di spingere i salari al di sopra del livello di equilibrio non consente al sistema di utilizzare pienamente la capacità produttiva. Pertanto occorre riformare il mercato del lavoro per eliminare le rigidità che impediscono al salario reale di raggiungere il suo livello naturale, e che dunque rappresenterebbero la causa principale della disoccupazione involontaria.

Tuttavia nonostante il riduzionismo che caratterizza i manuali universitari, i nessi causali che Monti ha in mente sono diversi. Si possono ricavare leggendo gli interventi a firma di Mario Monti apparsi sul Corriere della Sera tra il 2008 e il 2011, quindi prima che divenisse Presidente del Consiglio: 1. L’Italia, già prima della crisi, era uno dei paesi «avanzati» in corso di «arretramento», con differenziali negativi in termini di competitività e di crescita; 2. Il debito pubblico italiano consiglia prudenza, ma sarebbe imprudente non prendere misure espansive, reversibili nel tempo, adeguate alla gravità della crisi; 3. Una simultanea accelerazione delle riforme strutturali, meglio se sostenuta da un impegno bipartisan e dall’adesione delle forze sociali, sarebbe ben colta dai mercati ed eviterebbe che il temporaneo maggiore disavanzo renda più gravoso il rifinanziamento del debito.

In altri termini mi pare che si possa dire che: Monti sa che non ci sono risorse sufficienti per trasformare il tessuto produttivo italiano in tempi brevi per sviluppare un’offerta ad alto valore aggiunto che coniughi ricerca e sviluppo e competitività. L’operato del Governo circa la politica industriale e dell’innovazione è malauguratamente scarso. (Su questo pesa senza dubbio l’orizzonte di breve periodo che caratterizza il suo mandato.) Il Governo sembra accontentarsi invece di rilanciare il ruolo di subfornitura che caratterizza la maggior parte delle imprese italiane, dopo aver tenuto a freno le spinte speculative sui titoli del debito pubblico italiano. Viene così forgiata una working class coerente con questo progetto, innanzitutto adeguando all’attuale contesto economico la disciplina del licenziamento individuale, dopo un confronto con le parti sociali.

È vero che il Governo ha dichiarato che attraverso la riforma si vuole rendere più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle relative politiche attive, ma ad oggi non è ancora stato diffuso un testo ufficiale del disegno di legge. Il fine principale è comunque attrarre capitali stranieri in Italia, nella forma di investimenti diretti esteri, creando opportunità di business. Monti sembra rivolgersi soprattutto alla Cina e agli altri paesi asiatici che hanno surplus commerciali consistenti. Il rilancio della crescita e dell’occupazione sarebbero condizionate a questo iter. Si tratta di nessi causali estremamente labili perché dipendenti dallo stato delle aspettative dei potenziali investitori stranieri. È pur vero che soprattutto la Cina sta entrando in una difficile fase di transizione verso un modello di sviluppo differente e che dunque le imprese cinesi potrebbero essere interessate ad investire in Italia per reclutare manodopera.

Nella pratica quanto distante è il Monti economista dal Monti Presidente del Consiglio, e in quali aspetti è più distante (liberalizzazioni, mercato del lavoro, pressione fiscale)?
Come studioso Monti ha dato negli anni Settanta, importanti contributi alla teoria creditizia, proponendo con Robert Klein un modello di comportamento delle banche in regime di monopolio in cui si mostra la dicotomia presente tra tasso di interesse sui prestiti e tasso di interesse sui depositi. Oggi però egli è soprattutto ricordato per i molti contributi alla politica economica europea che ha dato attraverso il suo impegno diretto come Commissario europeo per il mercato interno. Il Monti uomo di Governo va messo in relazione soprattutto con l’esperienza come Commissario europeo. I principi che egli ha sempre ribadito sono soprattutto la tutela di concorrenza e trasparenza. Ciò si traduce nel sostegno alle privatizzazioni, alla flessibilità sul mercato del lavoro, alla contrattazione decentrata e individuale, alla richiesta di meno oneri fiscali e parafiscali sulla produzione, e all’idea che i sussidi alle imprese vadano contenuti. 

Sul fronte della politica monetaria e di bilancio la sua posizione è bene espressa da un articolo apparso nel 1993 sul Corriere della Sera (su cui ha posto la mia attenzione il prof. Giorgio Lunghini), dove si può leggere: «La disciplina di bilancio richiede che venga eliminato il disavanzo corrente, salvo oscillazioni legate al ciclo economico, e che lo Stato si indebiti solo a fronte di investimenti. La disciplina monetaria comporta che alla Banca d’ Italia vengano attribuiti sia la piena autonomia sulla politica monetaria sia l’obiettivo specifico della stabilità monetaria».

Questo si traduce in una adesione critica al “Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance”, perché Monti appare ben consapevole che il rigore tedesco ingabbia l’Europa, impedendo il rilancio degli investimenti. Le sue però sono critiche non gridate perché da uomo di Governo appare consapevole dei rapporti di forza su cui si fonda il futuro dell’Unione Europea. Egli invece mi pare convinto che lo Statuto della Banca centrale europea non vada rivisto. Secondo il parere di molti economisti, parere che io condivido, limitare il mandato di una banca centrale alla sola stabilità monetaria impedendole di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza è invece un errore.

Il governo Monti si può definire “conservatore”?
Monti risponderebbe in tutta probabilità con le stesse parole con cui chiude l’articolo del 1993 che ho appena citato: «Sono quesiti ai quali non oso rispondere. Anche perché li considero piuttosto irrilevanti. Mi limiterò a dire che vedo elementi solitamente considerati di “destra” (ad esempio: obiettivo della stabilità monetaria; meno interferenza pubblica su prezzi e quantità; più flessibilita’ nel mercato del lavoro) accanto a elementi solitamente considerati di “sinistra” (ad esempio: più incisiva tutela antitrust; meno sussidi alle imprese; molta attenzione alla solidarietà sociale). Elementi, gli uni e gli altri, che mi sembrano perfettamente compatibili. Anzi, sono componenti necessarie di una visione moderna dell’economia di mercato. Visione che dovremmo sforzarci di sostituire presto a quella dell’ economia corporativa, la quale rischia di sopravvivere non solo al fascismo ma anche alla Prima Repubblica».

Cosa ci si può attendere dal Governo Monti?
Già nel 1997 Monti si dimostra consapevole che l’Unione Europea deve ancora essere rafforzata lavorando anche sul versante delle politiche fiscali. Cito sempre da un articolo da lui scritto per il Corriere della Sera: «In un’economia internazionale integrata, come quella europea, esiste un grave problema: è sempre più difficile, per gli Stati, perseguire qualche obiettivo di equità nella distribuzione del reddito. Il sistema fiscale, strumento tradizionale per questa funzione, viene paralizzato dalla crescente concorrenza fiscale tra gli Stati. Questa si esercita – a causa della maggiore mobilità – a vantaggio del capitale e a danno del lavoro, con conseguenze negative per l’occupazione e per l’equità. Chi ha a cuore le esigenze dell’occupazione e ritiene che i pubblici poteri non possano abdicare ad una certa funzione di riequilibrio della distribuzione del reddito generato dal mercato, può seguire due strade. Una è cieca e controproducente, rispetto agli obiettivi desiderati: conservare lo Stato sociale così com’è, ostacolare di fatto il risanamento della finanza pubblica e l’inserimento competitivo del Paese nell’economia europea. L’altra non è facile, ma è più costruttiva: rendere più razionale e sostenibile lo Stato sociale, favorire la proficua integrazione del Paese, battersi affinché nell’Unione europea si ricostituiscano strumenti di governo non esclusivamente monetario, quali il coordinamento in materia fiscale». 

Credo che il Governo Monti cercherà di convincere l’Unione Europea che il fiscal compact non rappresenta una garanzia per la tenuta dell’Europa stessa e che il coordinamento della politica fiscale in Europa vada costruito. Credo anche che non ci riuscirà. Quindi ci lascerà, al termine del mandato, un Paese dipendente dagli investimenti diretti esteri, privo di una politica industriale reale, con una flessibilità del lavoro molto alta sia in entrata che in uscita, presumibilmente con ammortizzatori sociali un po’ più inclusivi (ma è tutto da dimostrare). Forse avrà contribuito al recupero dell’evasione fiscale, ma senza risolvere un altro grande problema che affligge il sistema economico italiano: una vera riforma fiscale che ridia senso e strumenti agli Enti Locali. Non so immaginare cosa accadrà sul fronte delle liberalizzazioni, anche se temo che il Governo cercherà di disincentivare la gestione pubblica dei servizi di pubblica utilità. Senza dubbio al termine del suo mandato Mario Monti avrà portato a termine i compiti che Draghi e Trichet avevano dettato all’Italia nella loro famosa e inconsueta (inconsueta per un Paese sovrano) letterina del 5 agosto 2012, riducendo così le spinte speculative sui titoli di Stato italiani, e ponendo le basi per la sua elezione a Presidente della Repubblica. 

Twitter: @antoniovanuzzo

X