Inizia il conto alla rovescia per il salvataggio di Italia e Spagna. Nei mesi scorsi sembrava che i timori fossero rientrati, ma nelle ultime settimane è tornato lo spettro di un intervento della troika composta da Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca centrale europea (Bce) e Commissione europea. L’osservato speciale è soprattutto Madrid, ma anche Roma non è esente dall’occhio critico degli investitori. Per entrambe, il timore è che dopo le misure d’austerity promosse dai governi di Mariano Rajoy e Mario Monti, occorra qualcosa di più. O meglio, per dirla come la banca statunitense J.P. Morgan, entro breve potrebbe essere «l’adozione di un programma di assistenza». Italia e Spagna potrebbero quindi essere spinte verso una richiesta di aiuto, sulla falsariga di quanto successo negli ultimi due anni con Grecia, Irlanda e Portogallo.
Gli sforzi di Roma e Madrid non sono sufficienti a evitare il peggio. Le misure di consolidamento fiscale in cui sono impegnati i due Paesi sono un primo passo avanti, come continuamente sottolineato dall’istituzione guidata da Christine Lagarde. Eppure, non è ancora abbastanza. Serve un’azione più veloce e incisiva, ha spiegato ieri il Fmi. I rischi che la situazione possa deteriorare aumentano ogni giorno di più e i grandi investitori istituzionali stranieri hanno ormai abbandonato sia l’Italia sia la Spagna. I fondi del mercato monetario (Money markets fund, o Mmf) europei si sono posizionati come un anno fa avevano fatto quelli americani. Sono usciti da quanto avevano di esposizione su Roma e Madrid, lasciando aperta la porta solo a Germania, Francia, Regno Unito e Olanda.
La situazione italiana, nonostante l’apparente tranquillità ostentata dal governo Monti, rimane di emergenza. Il processo di consolidamento fiscale dell’Italia va avanti, ma due elementi sono a sfavore. Da un lato il tempo a disposizione dell’esecutivo dell’ex commissario europeo è sempre meno, complici gli stalli politici nelle discussioni sulle riforme necessarie per mettere in sicurezza l’Italia. Nella primavera del 2013 si andrà alle elezioni e, salvo sorprese, Monti non si candiderà. Dall’altro lato ci sono invece i vincoli imposti da Bruxelles, che ha chiesto a Roma un surplus di bilancio del 5% annuo «per diversi anni», considerando questa come una delle condizioni necessarie per il ritorno alla normalità della crisi italiana. Le prospettive sono già negative. Se per il 2011 l’Italia ha raggiunto un avanzo primario dello 0,9% del Pil, nell’anno in corso si toccherà quota 1,6% secondo le stime del Fmi.
Bruxelles ha riconosciuto che dal maggio 2010 a oggi l’Italia ha approvato manovre per complessivi 100 miliardi di euro. Non è però quanto serve. Il Pil, secondo le ultime previsioni della Commissione Ue di febbraio, si contrarrà dell’1,3% nel 2012, facendo segnare la terza peggiore performance nella zona euro dopo Grecia e Spagna. È previsto stabile l’andamento dello stock del debito pubblico, sempre a ridosso dei 1.900 miliardi di euro, mentre sarà in leggero calo il deficit pubblico. Merito dei tagli che ha adottato il governo Monti, ma che poco effetto avranno nel lungo termine.
Entro fine mese sarà proprio la Commissione Ue a tracciare la mappa dell’evoluzione degli impegni presi da Roma. Nella missione condotta dalla troika, che fa parte del monitoraggio partito in novembre, si valuteranno gli sviluppi delle misure richieste. I 39 punti della lettera inviata in autunno dal commissario Ue agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, saranno passati al vaglio e confrontati con l’operato del governo Monti. Sarà l’occasione per tastare i progressi e, in caso di esito negativo, di correggere quanto occorre per evitare un contagio ben più severo della crisi dell’eurodebito. Inoltre, l’esecutivo fra pochi giorni presenterà la revisione della stima di crescita del Pil italiano per il 2012. Secondo le indiscrezioni dovrebbe attestarsi in linea con le previsioni della Commissione Ue, ma non si possono escludere sorprese negative, specie considerando il continuo declino della produzione industriale nel Paese.
Come ricorda J.P. Morgan, il percorso dell’Italia «è irto di ostacoli». La roadmap prevede che si passi dalle riforme del mercato del lavoro, dalle liberalizzazioni, dalla riduzione della spesa pubblica su base strutturale, per finire poi a un sistema imprenditoriale più snello e concorrenziale, in grado di alimentare la crescita economica. Il lavoro più duro doveva essere quello da novembre, dal giorno dell’insediamento di Monti, a oggi. «Sebbene qualcosa sia stato fatto, le lacune sotto il profilo del miglioramento della competitività, della tassazione per le imprese e delle liberalizzazioni sono ancora troppo elevate per rendere la situazione sostenibile nel medio-lungo periodo», scrive la banca statunitense. Pertanto, J.P. Morgan evidenzia come se il costo del rifinanziamento continuerà a restare «oltre il 5%», potrebbero essere fondamentali «nuove correzioni di bilancio, che però limiterebbero la capacità di crescita del Paese, alimentando un pericolo circolo vizioso risolvibile solo attraverso un intervento esterno». In altre parole, o Monti decide di spingere sull’acceleratore o la soluzione è quella della troika.
Ancora peggiori di quelle italiane sono le criticità in cui versa la Spagna. Come visto ieri le esigenze di Madrid fino a fine anno sono circa di 250 miliardi di euro. Colpa di un sistema bancario sotto stress, di una bolla immobiliare ancora inesplosa, di un indebitamento delle pubbliche amministrazioni locali, di una crescita anemica e di una disoccupazione che veleggia oltre il 20 per cento. Tutti elementi che porteranno il debito dal 68,5% del 2011 al 78,5% previsto per quest’anno. E non è un caso che oggi i Credit default swap (Cds) sulla Spagna, ovvero i derivati che fungono da assicurazione contro il fallimento di un asset, abbiano raggiunto i 500 punti base, il massimo livello di sempre. Le tensioni non si placano e non funziona nemmeno la strategia della Moncloa, che continua a rimarcare come la Spagna «non ha in discussione di chiedere un aiuto, né diretto né indiretto».
Il fondo a protezione dell’eurozona, il cosiddetto firewall, non è grande abbastanza per Roma e Madrid. Il fondo European stability mechanism (Esm) ha una capacità massima di 500 miliardi di euro, come ratificato dall’ultimo Consiglio europeo, ma non sufficienti. A spiegarlo è un paper del Centre for European policy studies (Ceps) a cura di Daniel Gros e Alessandro Giovannini. Le sole esigenze di rifinanziamento di Italia e Spagna sui mercati obbligazionari da qui al 2016 valgono 1.793 miliardi di euro. Troppo per il fondo Esm. La questione fondamentale, infatti, è l’accesso ai mercati. Come più volte ricordato dalla Commissione europea, si deve evitare che si realizzi questo scenario per Roma o Madrid. Non è un caso che al G20 di Cannes dello scorso novembre, il leit motiv su questi due Paesi era solo uno: «Sono troppo grandi per fallire, non ci sono abbastanza fondi». A distanza di cinque mesi saranno anche cambiati i governi, ma non è cambiata la percezione di fondo.