Pochi ricavi e trasparenza: così i Comuni vendono gli immobili

Pochi ricavi e trasparenza: così i Comuni vendono gli immobili

Tra un mese esatto, stando a quanto previsto dal decreto Salva Italia, l’Agenzia del Demanio dovrà fornire ai ministeri competenti la lista degli immobili pubblici di sua proprietà. Si stima siano 46mila, e il loro valore tra 50 e 70 miliardi di euro. Tuttavia, nessuno sa davvero quale sia il suo prezzo di mercato. Stesso discorso per gli immobili che negli ultimi anni sono stati ceduti dai Comuni, via bando, a fondi specializzati. Un modo per fare cassa e finanziare la spesa corrente. Almeno in teoria, perché recuperare i dati sull’andamento della gestione è praticamente impossibile. Sebbene non esista un obbligo di legge a rendere pubbliche queste informazioni, il cittadino ha diritto di sapere come viene gestito il patrimonio immobiliare pubblico.

Tra l’altro si tratterebbe di un’operazione nemmeno troppo difficile: secondo quanto prevedono le regole di Banca d’Italia e di Consob, infatti, un esperto indipendente è chiamato a valutare ogni sei mesi il prezzo di mercato degli immobili inseriti all’interno dei fondi di investimento immobiliare gestiti dalle Società di Gestione del Risparmio, per poi trasmettere i dati, tra gli altri, non solo ai quotisti del fondo, ma anche a Palazzo Koch. In altre parole la rendicontazione già avviene, ma non viene divulgata separatamente dal bilancio comunale. Come mai?

La spiegazione è semplice: non c’è una legge che imponga ai Comuni di scorporare questi dati, né i fondi non quotati sono tenuti a comunicare il loro andamento, a meno che non siano quotati. Il meccanismo funziona così: il Comune ha le casse vuote, ma è ricco di proprietà immobiliari che non utilizza e che vorrebbe valorizzare. Per guadagnare dalla loro cessione li affida a una società specializzata, individuata mediante un bando ad evidenza pubblica, e passa subito all’incasso. Nel frattempo, la società cerca di venderli sul mercato, e per questa attività di gestione del fondo, attraverso la valorizzazione o la dismissione degli immobili, incassa annualmente una commissione di gestione, e il Comune continua a guadagnare dal rendimento delle quote sottoscritte con cui ha apportato – in cambio appunto delle quote – gli immobili di proprietà. Un meccanismo dove vincono tutti, a patto che il mercato tiri. 

Purtroppo non è questo il caso. L’osservatorio Nomisma prevede una stagnazione delle compravendite nei prossimi due anni e un modesto calo dei prezzi, nel 2012, dell’1,6% per le abitazioni, del 2,1% per gli uffici. Numeri confermati dall’ultimo sondaggio trimestrale di Bankitalia, relativo allo scorso gennaio, che evidenzia una minima ripresa delle compravendite, collegata però a fattori stagionali. Oltre al danno di aver iscritto nei bilanci previsionali valori ben superiori rispetto ai prezzi di mercato, e quindi dover rifare le previsioni di spesa per gli anni successivi, c’è anche la beffa.

A fine 2009, infatti, la Consulta dichiara incostituzionale gran parte dei commi all’art. 58 della legge 133 del 2008, che lasciava ai Comuni la facoltà di valorizzare in autonomia gli immobili conferiti nei fondi. Una competenza, quella sulla destinazione d’uso, che in questo caso spetta alle Regioni. Una misura che ha completamente bloccato, ad esempio, il fondo del Comune di Venezia, approvato, triste destino, soltanto nel novembre 2009, pochi mesi prima che il provvedimento fosse dichiarato incostituzionale.

Consiglieri comunali addetti all’urbanistica e gestori hanno ripetuto all’unisono che l’opera dismissione degli attivi immobiliari, secondo i loro calcoli, sarebbe durata al massimo tre anni. Poi è arrivata la crisi. Per fare cassa nel brevissimo termine le dismissioni sono servite, ma in futuro chi comprerà? Ma sopratutto, se terminasse l’investimento presso i fondi immobiliari, le amministrazioni comunali sarebbero chiamate a ricomprare i propri immobili invenduti e deprezzati, addirituttura con degli interessi?

(Clicca su ciascuna città per vedere a che punto sono i fondi immobiliari)


Torino

Il Fondo città di Torino nasce a fine 2007, ha durata quinquennale ma l’anno scorso è stato prorogato fino al 2015. È partecipato da Prelios (36%) e da Equiter (29%), società per la finanza pubblica di Intesa Sanpaolo. Possiede una ventina d’immobili di pregio per un valore di 131 milioni di euro, ma di questi è riuscita a venderne soltanto uno. Stando al bilancio 2010 di Equiter, il valore della quota in suo possesso è passato da 10,5 a 9,8 milioni d euro, mentre dal bilancio 2011 di Prelios non è possibile risalire al valore della partecipazione, iscritta però per 12,5 milioni di euro nel prospetto informativo di Pirelli Real Estate all’epoca della quotazione nel 2009. Da Torino i ben informati dicono che molte delle aste indette dal fondo siano andate deserte, tanto che Fassino ha ripreso il vecchio meccanismo di asta diretta per le nuove dismissioni, senza cioè affidare più nessun altro immobile al fondo. 


Milano

Il fondo Milano I nasce all’inizio del 2008, mentre il Milano II alla fine dell’anno scorso e fa subito scalpore perché nel novero dei suoi immobili inizialmente doveva comparire il centro sociale Cascina Torchiera, poi depennato all’ultimo per l’impossibilità di effettuare una perizia. Il primo ha una dotazione di 255 milioni di euro – di cui 150 già spesi – il secondo di 120 milioni, di cui 60 entrati e subito usciti dalle casse di Palazzo Marino. Stando al bilancio 2010 Milano I ha portato 9 milioni di euro di dividendi, e finora gli immobili dismessi sono solo un terzo del totale. Il problema è che molti di essi sono abitati, e in alcuni casi in stato di degrado, come lo stabile nella semi-centrale via Santa Maria del Suffragio. Una questione non da poco, visto che spesso questi condomini sono affittati da giovani e anziani, che non hanno la possibilità di acquistarli. E la cosiddetta “vendita di (uno stabile) occupato” non è mai stata considerata un’opzione attraente dagli investitori. Altri, come alcuni appartamenti di pregio in Corso 22 Marzo, in teoria sarebbero stati ristrutturati per riassegnarli in edilizia popolare con una delibera stoppata dalla Giunta Moratti e mai ripristinata. Su altri due appartamenti pende il ricorso al Tar del Sicet, il sindacato degli inquilini, che blocca qualsiasi ipotesi di compravendita. Risultato? Le aste vanno deserte, gli immobili si deprezzano e il fondo va ad aggiungersi alle altre partecipate che quest’anno, come A2a, hanno portato magre soddisfazioni.


Venezia

La situazione della città lagunare è a dir poco paradossale. EstCapital, società che vanta, tra gli altri, il Grand Hotel Des Baines e il famosissimo Hotel Excelsior, entrambi al Lido, vince la gara indetta dal sindaco Cacciari nel novembre 2009. Tuttavia, come detto, la Consulta dichiara incostituzionale l’autonomia decisionale dei Comuni nella destinazione d’uso degli immobili. Conclusione: la città ha intascato subito, come prevede lo schema di questi investimenti, 40 milioni di euro, in cambio di 7 immobili. Gli altri 11, che valgono altri 41,5 milioni, rimangono invece bloccati in attesa delle autorizzazioni della Regione, che sembra arriveranno nel giro di qualche settimana. Eppure, a tre anni dal lancio, siamo ancora sicuri che il portafoglio pubblico di EstCapital sia ancora stimabile in oltre 40 milioni di euro, al netto delle enormi spese di manutenzione che la laguna impone?

Twitter: @antoniovanuzzo 

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