Protezionismo nella Ue? Ucciderebbe una moderna politica industriale

Protezionismo nella Ue? Ucciderebbe una moderna politica industriale

Il suggerimento di Philippe Aghion di riaprire il dibattito sulla politica industriale nei paesi industrializzati – e in Europa in particolare – si scontra con un pericolo serio, cioè che dalla porta (teoricamente ben sorvegliata) delle politiche trasversali di tipo top-down e dell’intervento colbertista bottom-up, passino gli interessi particolari. Se ciò accedesse, invece di generare politiche più virtuose e trasparenti a supporto dell’innovazione e della lotta al cambiamento climatico, ripensare la politica industriale offrirebbe un alibi intellettuale per erigere barriere.

Apparentemente il rischio è limitato. Quando la crisi è iniziata nel 2008 era diffuso il timore che ogni paese si chiudesse al commercio e all’investimento. Ma le cose sono andate diversamente – nessuno ha scelto di alzare dazi o di introdurre divieti, come fecero gli americani nel 1930 con lo Smoot-Hawley Tariff Act. Il problema però, è che il protezionismo assume forme più sottili e sofisticate, tanto da non essere considerate barriere al commercio neanche dall’Omc.

Questo è almeno quello che emerge dai conteggi del decimo rapporto del Global Trade Alert. Il protezionismo non è stato mai tanto alto dopo il crack Lehman. Due terzi delle misure protezionistiche consistono in discriminazioni agli investimenti (spesso sotto la copertura della difesa della sicurezza e dell’interesse nazionale), sussidi alle esportazioni o ai salari, salvataggi discriminatori d’imprese in crisi e così via. Se la Cina ha il dubbio privilegio di averne introdotte molte, gli altri “colpevoli” sono paesi grandi. E i settori coinvolti sono importanti.

Due esempi. In Corea, secondo Moonsung Kang e Soonchan Park, è diventato più frequente il ricorso alle procedure antidumping e più ampio il ventaglio di beni protetti. Il governo brasiliano, dal canto suo, ha chiesto alle autorità messicane di limitare le vendite di autoveicoli a 1,4 miliardi di dollari all’anno fino al 2015. Questo si collega all’esplosione del deficit commerciale brasiliano con il Messico, che ha esportato vetture per 2 miliardi. Alla fine i messicani hanno dovuto accettare le condizioni brasiliane, anche se continuano ad essere l’unico partner che può vendere senza dazi, a differenza di americani, asiatici ed europei. La cosa paradossale – o forse no – è che il Brasile è a sua volta oggetto delle misure protezionistiche del vicino del Sud e partner del Mercosur: l’Argentina, in cui le imprese devono chiedere al governo l’autorizzazione preventiva per le importazioni di ogni genere di consumo.

Se questo protezionismo larvato ma non troppo non sembra suscitare grande preoccupazione è perché si fa strada la convinzione che, negli ultimi anni, di protezionismo in Occidente ce ne stia stato troppo poco. Lasciare che la Cina s’industrializzasse anche se i suoi standard – protezione dei lavoratori, tutela dell’ambiente, sorveglianza della concorrenza sui mercati, lotta alla corruzione – erano inferiori sarebbe stato un grave errore. Questa è la tesi di Edoardo Nesi, per esempio, ma anche di Laurent Vauquiez, ambizioso capofila della Droite Sociale francese. Secondo il Ministro dell’Istruzione superiore e della Ricerca, «c’è spazio per un protezionismo moderno, che non chiude ma protegge, [mentre] un protezionismo fatto di aumenti dei dazi non funziona».

In questa accezione moderna del protezionismo, l’Europa dovrebbe chiedere reciprocità nell’apertura dei propri appalti pubblici, usare più aggressivamente le pratiche anti-dumping e più lascamente la legislazione antitrust per favorire l’emergere di National champions, introdurre strumenti di tracciabilità sociale e ambientale delle importazioni per escludere quelle di paesi in cui non sono rispettati i diritti dei bambini e il Protocollo di Kyoto. Vauquiez fa due esempi precisi: la cantieristica, in cui la Corea ha moltiplicato la sua quota di mercato a scapito dell’Europa, e le regole europee per tutelare la concorrenza, che hanno impedito alla francese Pechiney di acquistare la canadese Alcan, ma non ad Alcan di acquistare Pechiney!

Invocare l’introduzione di misure protezionistiche, in un singolo paese come la Francia o in tutta Europa, può servire a confortare un’opinione pubblica sempre più preoccupata dalla crisi, dall’erosione del potere d’acquisto e dalla disoccupazione, ma non risolve certo i problemi strutturali. Ma soprattutto, vedere nell’intervento pubblico solo uno strumento difensivo non permette di cogliere l’elemento innovativo delle proposte di Aghion. Ancor peggio, semplificare la realtà per giustificare il protezionismo offre ulteriori munizioni a chi è per natura scettico sull’opportunità della politica industriale.

Se ci limitiamo alla Cina – che non ha ovviamente avuto bisogno dei suggerimenti degli economisti occidentali per sostenere attivamente la propria industria – è perlomeno semplicistico credere che tacitare i sindacati e mostrare indifferenza rispetto ai problemi ambientali siano stati di per sé elementi sufficienti per crescere a ritmi vertiginosi. Una politica industriale moderna si concentra su altre cose: la qualità del prodotto, la quantità di imprese all’avanguardia, la ricchezza delle interazioni tra attori, il miglioramento delle infrastrutture e del loro utilizzo. Tutte cose che i cinesi, senza minimizzare ovviamente la complessità della situazione, hanno fatto negli ultimi 20 anni – ma anche i tedeschi, tanto per parlare del paese che sia in Francia sia in Italia è portato a modello di re-industrializzazione virtuosa.

Insomma, le proposte di Aghion rischiano di fallire se c’è protezionismo, e anche se molti sostengono che in questa crisi non se n’è visto, è meglio procedere con grande cautela. Piuttosto che farne una questione di principio – una specie di Articolo 18 della politica industriale – meglio ragionare a partire da domande concrete: bisogna destinare più fondi alla ricerca e sviluppo? Quanti? Dove trovarli, in questi tempi di crisi? Ci sono casi in cui troppa concorrenza può ledere lo sforzo innovativo? Quale finanza serve per permettere all’Europa di creare i propri campioni nelle nuove tecnologie? Bisogna ammettere che un certo livello di diseguaglianza territoriale, a scala nazionale ma anche continentale, è il prezzo da pagare per concentrare le attività economiche e di ricerca in determinate zone, dove gli effetti di agglomerazione permettono un miglior utilizzo di capitale e lavoro? Va incoraggiata, senza se e senza ma, l’immigrazione, anche ma non solo di lavoratori qualificati?
 

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