Non sono d’accordo su nulla serbi, musulmani e croati di Bosnia; potrebbero essere d’accordo sull’inizio della guerra? Quand’è cominciato il carnaio di Sarajevo? Il 6 aprile 1992, data convenzionalmente accettata, e sostenuta da croati e musulmani? Quel giorno furono uccise Suada Diliberović, musulmana nata a Dubrovnik, e Olga Sučić, croato-bosniaca, colpite sul ponte di Vrbanja dalle fucilate dei cecchini serbi che sparavano dalle finestre dell’Holiday Inn. Oppure, come dicono i serbi, il 1° marzo, giorno in cui fu ammazzato Nikola Gardović? Stava partecipando al matrimonio del figlio quando un gruppo di musulmani aprì il fuoco sul corteo nuziale, uccidendolo.
Rispetto a quegli anni, è cambiato anche il lessico: non si dice più “musulmani di Bosnia” (fatti diventare gruppo etnico da Tito per equipararli a croati e serbi): oggi tutti sono bosniaci, e mentre croati e serbi restano tali, i musulmani si chiamano “bosgnacchi”.
Ma torniamo a quella fine inverno e inizio primavera del 1992. Slovenia e Croazia avevano dichiarato l’anno prima la secessione dalla Jugoslavia ed erano state teatro di una guerra lampo con pochi morti (Slovenia) e di combattimenti feroci e sanguinosi che avrebbero portato a uno stallo risolto solo nel 1995 (Croazia). Tutti gli occhi erano puntati sulla Bosnia Erzegovina, la più interetnica delle repubbliche jugoslave: poco meno della metà della popolazione si dichiarava musulmana, un terzo serba, un quinto croata e c’era pure un otto per cento di “jugoslavi”, ovvero che non si riconoscevano in un gruppo etnico preciso. La polveriera era pronta a esplodere e il cerino acceso è il referendum sull’indipendenza che si tiene sabato 29 febbraio e domenica 1° marzo. I sì vincono col 64 per cento dei voti, ma i serbi non riconoscono il risultato perché hanno boicottato la consultazione. Radovan Karadzić e il suo Partito democratico serbo si schierano decisamente contro l’indipendenza.
Nel secondo giorno del referendum avviene l’assassinio di Nikola Gardović. I musulmani diranno che i serbi avevano provocato, perché nel corteo nuziale si sventolavano bandiere serbe, simbolo proibito in una giornata elettorale. Rimane il fatto che allo sventolio rispondono con le armi.
La Jna, l’Armata popolare jugoslava, sempre meno l’esercito federale voluto da Tito e sempre più espressione del potere serbo di Belgrado, esce dalle caserme e presidia le vie di Sarajevo. «Io c’ero, e secondo me è corretto dire che l’assedio è cominciato il 1° marzo, perché i soldati, anche se non sparavano, avevano messo dei blocchi dove controllavano chi entrava e chi usciva dalla città», ricorda Gigi Riva, al tempo inviato speciale del Giorno, oggi responsabile degli esteri dell’Espresso.
La situazione rimane di una calma molto, ma molto relativa, fino agli inizi di aprile. Il 4 alcune unità paramilitari serbe attaccano la scuola di polizia del ministero degli Interni. L’azione è sostenuta da parecchi carri armati della Jna che viene in tal modo coinvolta direttamente nell’azione di guerra. Intanto si stanno ammassando persone per la grande manifestazione pacifista del 5 aprile. «Decine di migliaia di persone giungono a Sarajevo per dire chiaramente che non vogliono la guerra. Molti anni dopo si comprenderà che i manifestanti non avevano avuto alcun sostegno organizzativo dalle autorità, dal momento che la manifestazione veniva percepita come antigovernativa, critica cioè nei confronti delle istituzioni ritenute responsabili della situazione», scriverà Zlatko Dizdarević, al tempo direttore di Oslobodjenje, il quotidiano che uscirà tutti i giorni dell’assedio, magari stampato su carta da pacchi, quando non ci saranno più le bobine di carta da giornale.
Il giorno dopo, lunedì 6, arriva la notizia che la Comunità europea riconosce l’indipendenza della Bosnia Erzegovina. Urla di giubilo si innalzano tra i manifestanti per la pace riuniti da due giorni nella piazza del Parlamento. Ma poco dopo si odono i primi colpi di fucile. «Gli spari diretti sui manifestanti provengono dalle finestre dell’Holiday Inn, che si trova di fronte al palazzo del parlamento, dalle stanze in cui c’è la sede del Partito democratico serbo», scrive ancora Dizdarević, «Si crea il panico e una grande massa di persone fugge verso il fiume Miljačka e il ponte di Vrbanja, alle spalle del palazzo del Parlamento. Ma ora arrivano nuovi spari dalla parte opposta. Sul ponte cade una studentessa di Dubrovnik, Suada Diliberović, che viene convenzionalmente indicata come la prima vittima della guerra di Bosnia». Assieme a lei viene uccisa pure Olga Sučić e il ponte sarà ribattezzato con il loro nome.
Il 6 aprile, la data che ha finito per indicare l’inizio dell’assedio di Sarajevo e della guerra di Bosnia, non è stata affatto percepita come tale vent’anni fa. «Si parlava di incidenti, ma nessuno pensava che sarebbe scoppiata la guerra», ricorda Nadira Sehović, al tempo stinger dell’Ansa a Sarajevo. E infatti anche i titoli dei giornali parlano di una situazione gravissima, ma non di guerra. La Stampa del 7 aprile 1992, per esempio, mette soltanto a pagina 13 le notizie dalla Bosnia, con il titolo «I cecchini padroni di Sarajevo». Come poi sia andata a finire lo sappiamo: l’assedio durerà un migliaio di giorni, i morti saranno circa diecimila, 1.500 dei quali bambini. Sarà solo l’intervento Nato nell’autunno del 1995 (dopo la strage di Srebrenica) e gli accordi di pace di Dayton del dicembre successivo a riaprire Sarajevo al mondo.
*Autore di La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001, il Saggiatore
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