Non lo sapremo mai, con esattezza, quanti fossero gli italiani a bordo del Titanic, il transatlantico naufragato il 15 aprile 1912. Non sappiamo nemmeno con sicurezza quante persone fossero imbarcate e quante siano state le vittime: si stima tra 1490 e 1635. In ogni caso le ricerche più accurate, effettuate dallo studioso Claudio Bossi (questo il suo sito) fissano i morti italiani a 37, ovvero tra i Paesi con il maggior numero scomparsi. Si trattava in prevalenza di personale del ristorante di bordo, e solo in piccola parte di passeggeri. Ci furono anche alcuni sopravvissuti italiani: una donna, Argene Genovesi, deceduta nel 1970, e due uomini, Emilio Portaluppi, morto nel 1974, e Luigi Finoli, originario di Chieti, ma già da tempo emigrato negli Usa, di cui sembrano essersi perse le tracce dopo il salvataggio.
Il perché di tanta incertezza ha varie cause. «Potrebbero esserci stati altri italiani in terza classe, quella in cui si imbarcavano gli emigranti», spiega Marco Cuzzi, docente di Storia contemporanea alla Statale di Milano (si interessa al Titanic per motivi familiari: un suo antenato è scomparso nel naufragio), «ma non sempre le registrazioni dei passeggeri di terza erano corrette e complete e poi spesso gli italiani venivano mescolati con gli spagnoli e i portoghesi».Gli italiani che lavoravano come cuochi e camerieri erano quasi tutti residenti in Inghilterra, principalmente a Southampton, e per questo venivano registrati come inglesi. Poi c’erano svizzeri con cognome italiano, ed è pressoché impossibile capire se si trattasse di ticinesi, quindi cittadini elvetici, o di emigranti, quindi con passaporto italiano. Inoltre a Cherbourg si era imbarcato un gruppo di emigranti austriaci che in realtà erano croati (al tempo sudditi asburgici), se tra loro ci fosse qualche dalmata o qualche istriano di madrelingua italiana non è dato sapere (i giornali di Trieste e di Pola non fanno menzione di vittime dal Litorale, come all’epoca si chiamava la regione austroungarica a noi nota come Venezia Giulia). Al contrario, invece, erano presenti a bordo valdostani e piemontesi con cognomi francesi, ma italiani a tutti gli effetti.
Fatta questa lunga, ma doverosa, premessa vediamo un po’ ai 37 che Bossi classifica come sicuramente italiani. I passeggeri erano solo 7, soprattutto di seconda classe, gli altri 30 erano dipendenti della White Star, la compagnia armatrice. Tra questi c’è anche il cuoco che pronuncia una delle frasi storiche immortalate dalla storiografia del naufragio, quel celeberrimo: «Signori, è stato un piacere cucinare per voi», indirizzato a un impassibile Lord Astor che continua a giocare a carte mentre la nave affonda (anch’egli, vittima più illustre del naufragio, al tempo l’uomo più ricco del pianeta, è protagonista di un episodio memorabile: indossava lo smoking, ma si fa portare la giacca del frac dal cameriere personale che poi congeda affermando: «Un gentiluomo muore in frac»).
Tra le vittime italiane il personaggio di maggior spicco è probabilmente Gaspare Gatti, 48 anni, della provincia di Pavia, il manager dei ristoranti White Star, ovvero colui che aveva procurato il personale di bordo, e che aveva pensato di godersi il viaggio inaugurale. Morto pure il capo cameriere, Francesco Nannini, 42 anni, della provincia di Firenze. Gli altri camerieri, cuochi e aiuti di sala o di cucina erano quasi tutti molto giovani; poco più, e in qualche caso poco meno, che ventenni. La stragrande maggioranza era originaria di Liguria, Toscana, Piemonte e Lombardia. Le loro storie sono tutte piuttosto simili: emigrati per guadagnarsi da vivere, erano finiti a lavorare a bordo dei transatlantici; gli italiani e i francesi erano considerati il personale di ristorazione più affidabile e Gatti, che non voleva far brutte figure nel viaggio inaugurale, aveva assunto soprattutto personale proveniente da questi due Paesi. Tra i passeggeri scomparsi è particolarmente strana la vicenda di Alfonso Meo Martino, un liutaio di 48 anni, originario di Potenza, che si era imbarcato in terza classe per consegnare un violino a New York. Morto per via di uno strumento musicale, insomma.
Ora veniamo ai sopravvissuti. Di Finoli, come detto, poco si sa. Viveva da tempo in America, in Pennsylvania e a New York, sposato, era tornato in Italia per visitare i parenti; viaggiava in terza classe (non sopravvissero in molti della terza classe; poiché le scialuppe potevano portare soltanto la metà delle persone presenti a bordo, i marinai chiusero i cancelli della terza per permettere di salvarsi ai passeggeri di prima e seconda classe). Argene Genovesi, nata in provincia di Lucca, si salvò perché donna. Era incinta di due mesi ed è stata la figlia, di nome Salvata proprio perché sopravvissuta al naufragio, a svelare la vicenda, soltanto in tempi piuttosto recenti. Argene viaggiava in seconda classe, assieme al marito, Sebastiano Del Carlo. Salvata la ricorda così nel Corriere della sera del 20 febbraio 1998: «All’una di notte mia madre udì un gran rumore. Nel frattempo mio padre era sceso in cabina. La mamma spaventata gli chiese se aveva sentito il boato e lo invitò ad andare a vedere. Dopo poco il babbo tornò di corsa: “Argene, corri, bisogna fuggire”. Riuscirono a raggiungere il ponte superiore della nave facendosi largo a fatica tra gente che scappava e urlava. L’equipaggio invitava donne e bambini a salire sulle scialuppe di salvataggio. Il babbo prese la mamma, la strinse forte a sé e le disse: “Vai tranquilla, presto ci rivedremo”. Fu l’ultima volta che lo vide vivo. Quando fu tratta in salvo, mia madre decise di tornare subito in Italia». Argene parla poco e malvolentieri della tragedia, non rivela mai nemmeno alla figlia la professione di quel padre che non ha mai conosciuto. Argene muore nel 1970, mentre Salvata Del Carlo, di fatto l’ultima sopravvissuta italiana del Titanic, scompare ad Altopascio, in provincia di Lucca, il 31 ottobre 2008.
Emilio Portaluppi, 30 anni al tempo del naufragio, era uno scalpellino della provincia di Varese, emigrato negli Usa in cerca di fortuna. In effetti la trova, perché la sua abilità gli permette di diventare uno scultore di una certa fama. Si sposa, ha una figlia, ma nel 1910 si separa; resta in America, mentre moglie e figlia tornano in Italia. Si trovava a bordo Titanic, in seconda classe, di ritorno da una visita alla sua famiglia. Il racconto del suo salvataggio assume toni rocamboleschi, infatti dirà di essere stato issato a bordo di una scialuppa su intercessione di lady Astor, mentre i marinai tentavano di allontanarlo con i remi. Bello e aitante, avrebbe colpito l’affascinante lady, divenendone l’amante; vedendolo in acqua, la donna avrebbe costretto i marinai ad accoglierlo nella scialuppa. Non si sa se sia vero, ovviamente; mentre è possibile che si allontanassero i naufraghi caduti in acqua (alla temperatura di – 2° avevano un tempo di sopravvivenza limitatissimo) per impedire loro di salire sulle scialuppe. «È assolutamente plausibile», spiega Marco Cuzzi, «che i marinai inglesi abbiano cacciato la gente con i remi. Non ne escono benissimo dal naufragio, alcuni marinai si sono comportati in modo brutale e, sbarrando la terza classe, qualcuno si è assunto il compito di fare ingegneria sociale».
Comunque Portaluppi arriva a terra sano e salvo e dopo qualche tempo sporge reclamo per la perdita di una fotografia autografata da Garibaldi, chiedendo tremila dollari di risarcimento. Torna in Italia per arruolarsi e combattere la Prima guerra mondiale e si salva di nuovo (sarebbe interessante capire se c’erano più possibilità di sopravvivere al naufragio del Titanic o alle trincee del Carso e del Piave). Dopo la guerra rientra negli Stati Uniti, ma ogni tanto va in vacanza ad Alassio, dove tutti conoscono il sopravvissuto del Titanic. Nel 1972 torna definitivamente ad Arcisate per stare accanto alla figlia e al resto della famiglia. Morirà due anni più tardi, ormai ultranovantenne.