Arrestato Vignali, ecco come funzionava il “Sistema Parma”

Arrestato Vignali, ecco come funzionava il “Sistema Parma”

La crisi di Parma come longue durée

La crisi di Parma è la crisi di un modello di governo; un modello di governo che, a ben vedere, affonda le sue radici in un tempo ben anteriore alla tornata amministrativa del 24 maggio e del 7 giugno 1998, quando la sinistra perdeva le elezioni, per la prima volta, nel secondo dopoguerra e il sindaco uscente del Partito democratico della sinistra (Pds), Stefano Lavagetto, veniva sostituito da Ubaldi, leader di una lista civica sostenuta dal centrodestra e dall’Unione parmense degli industriali (Upi).

Le radici del modello sono un sistema politico-istituzionale di tipo oligarchico che, secondo Gilberto Seravalli, caratterizza come una sorta di longue durée, la storia cittadina, fin dai tempi della fondazione del Ducato (1545). Perché a tale sistema non è estranea né «la cultura profonda della città, segnata da una dicotomia tra politica e vita materiale che può essere fatta risalire al carattere eterodiretto del Ducato», né la parmigianità, «caratterizzata dalla forma-corte» (e si sa che la «corte non spende per produrre ma per apparire» ).
Per dimostrare la radice oligarchica della storia politico-istituzionale di Parma, il noto storico dell’economia dello sviluppo, però, porta il suo ragionamento a considerare cause temporalmente più vicine a noi – e a nostro parere più convincenti – quando scrive che è a partire dal secondo dopoguerra che la classe politica cittadina si dimostra incapace di andare oltre una mera spartizione di potere con le élites economiche, dimostrando, con ciò, anzitutto la sua debolezza.
Diversamente dalla posizione di leadership occupata dal Partito comunista italiano (Pci) tradizionale del «modello emiliano», il Pci parmigiano – complici la debolezza del suo sistema cooperativo, una struttura verticistica della struttura produttiva e il peso elettorale del Partito socialista italiano (Psi) qui più forte che in altre città emiliane – è incapace di esercitare un’autonoma capacità direttivo-politica sull’economia e la società; il Pci si specializza, così, nella gestione del capitale sociale della città (servizi sociali, volontariato) e lascia campo aperto alla destra anche sul sistema dell’informazione, monopolizzato dalla “Gazzetta di Parma”, il quotidiano dell’Upi.

L’assenza di protagonismo sociale e politico da parte del Pci locale si coniuga con una marcata opacità nella costruzione del modello di policy making. A Parma, infatti, «il modello oligopolistico è la forma essenziale della regolazione sociale; le [sue] caratteristiche di fondo sono così forti da essere inscritte in un “codice genetico” del sistema politico-sociale» basato sulla conventio ad excludendum di alcune «grandi organizzazioni che aggregano interessi diversi», li rappresentano e li premediano, «in modo da mantenere in poche mani il controllo dell’accesso alle risorse pubbliche. Ciò significa che le politiche economiche sono fortemente condizionate da tali pochi gruppi sociali, i quali accedono alla contrattazione con l’autorità pubblica di governo che, da parte sua, manca di un proprio progetto». Il modello politico-istituzionale emiliano, invece, ispirato al pluralismo, «prevede che abbiano voce effettiva una moltitudine di interessi sociali diversi sicché il livello di aggregazione della domanda politica è basso, mentre il governo pubblico media in proprio tra questi diversi interessi sulla base di un progetto che concepisce in relativa autonomia».
Importanti e con effetti di lungo periodo sono, dunque, le responsabilità di tale squilibrio genetico del sistema politico-sociale parmigiano.
La subalternità a ristretti gruppi di potere reale, pur avendo consentito al Pci di mantenere il controllo della «prima Parma» fino al 1998, è la spia di un assetto de facto postdemocratico ante litteram e la manifestazione dell’«assenza di una civic culture condivisa» . Ed è da questa «prima Parma» che bisogna ripartire per comprendere da dove sia originato il lungo sonno della coscienza civica e politica nella civitas della «seconda Parma» di Ubaldi-Vignali (1998-2011).
È necessaria una prova che dimostri l’eccentricità di Parma rispetto al modello politico-istituzionale dell’Emilia rossa, oltre che della sua particolare predisposizione ad affidare a privati la gestione di attività d’interesse generale: la fondazione, nel 1975, della Società parmense per gli insediamenti produttivi (Spip), che è una società per azioni stranamente deputata a operare senza scopi di lucro.

Va fatto notare che si sarebbe potuto scegliere la forma societaria del consorzio – costituito esclusivamente da enti pubblici – come avevano fatto molti altri comuni. Invece, a Parma, caso unico all’interno del mondo delle amministrazioni locali degli anni settanta, si optò per una forma societaria di diritto privato. Con le significative presenze, per la parte privata dei soci, dell’Upi e della Camera di commercio, industria e artigianato di Parma. La giustificazione che, all’epoca, venne data, fu che la società per azioni desse maggiori garanzie di agilità gestionale rispetto al consorzio, in quanto non soggetta a vigilanza o a tutela. Parole che suonano attuali e sinistre. Spip, infatti, sarà destinata a diventare un caso giudiziario tuttora insoluto. Di fatto, la madre di tutte le operazioni di mala gestione cittadina.
Nando Calestani è il presidente di Spip dal 2000 al 2010. Nonostante Spip disponesse di ben 200.000 mq di superficie invenduta, durante la sua presidenza iniziò un’intensa campagna di espansione, definita Spip 2, consistente in 25 appezzamenti per una superficie complessiva di 570.000 mq, e per il cui acquisto il Consiglio comunale deliberò un investimento di 100.000.000 di euro. A caratterizzare criticamente l’era Calestani, però, è soprattutto l’anomalia di due compravendite, verificatesi tra il 2005 e il 2006, quando venne a prodursi un’ingiustificata ipertrofia dei livelli di prezzo al mq, tanto in relazione alla tendenza dei prezzi in corso nel mercato immobiliare, quanto alla media delle altre compravendite di terreni riguardanti il progetto Spip 2. Un’anomalia già evidente a un’analisi delle sue cause fondative, ovvero le figure chiave e i ruoli occupati dagli attori chiamati in gioco nelle due operazioni di compravendita. Infatti, invece di provvedere direttamente all’acquisto presso i proprietari privati, Spip ne affidava stranamente il compito ad una società di intermediazione immobiliare, la Reig srl, fondata a soli quindici giorni dalla delibera con cui, il 9 maggio 2005, Nando Calestani otteneva, dal Consiglio, il mandato per realizzare Spip 2. Quando, il 4 aprile 2006, l’immobiliarista Paolo Borettini acquisì la Reig, la Spip si trasformò in una gallina dalle uova d’oro. Dapprima (26 aprile 2006), Reig ricavava una plusvalenza di 1.611.000 euro, derivante da uno spread tra prezzo di acquisto e vendita a Spip ammontante a circa 43 euro; successivamente (3 maggio 2006), Reig acquistava un appezzamento di 35.148 mq a un prezzo di 39,12 euro al mq; un anno dopo, lo rivendeva a Spip al prezzo di 122,62 euro al mq, per un costo, a carico delle casse pubbliche, di 4.425.000 euro (la plusvalenza a favore di Reig era di 3.050.000 euro). Si noti che il prezzo medio pagato da Spip direttamente ai proprietari privati per acquisire i restanti 23 appezzamenti di Spip 2 era di 12,12 euro al mq. Il colpo di grazia per le casse di Spip arrivò con il varo di Spip 3 (930.000 mq), per la cui realizzazione vennero chiesti 72.000.000 di euro alle banche (Unicredit e Bibop Carire), in cambio di lettera di patronage del Comune e ipoteca di aree di proprietà Spip. Di nuovo Reig sugli scudi, le cui quote vennero acquistate da Spip il 12 luglio 2007 dalla società fiduciaria Duemme sevizi fiduciari spa di Banca Esperia, che le aveva ottenute in gestione dalla società di Paolo Borettini nel dicembre 2006. Un passaggio criticato da uno dei soci di minoranza di Spip, la Provincia di Parma, che ne contestava la mancanza di trasparenza, dovuta alla copertura dell’identità dei soci di Reig, garantita dalla fiduciaria che, per legge, è chiamata a tutelare l’anonimato dei soci titolari delle azioni. Tale acquisto, rivelatosi dissennato (13.820.000 per le quote Duemme + 17.300.000 euro per le aree già compravendute da Reig a un prezzo di 66,88 euro al mq abbondantemente fuori mercato) era parallelo a una serie di affari che nuovamente chiamavano in causa Paolo Borettini, divenuto amministratore unico della nuova società di famiglia, la Mind Re srl, fondata il 20 dicembre 2006, e una nuova impresa, la Ghidini Egidio spa. Queste due società, grazie a una doppia transazione immobiliare sul terreno Sani-Flisi, maturarono grandi plusvalenze (dell’ordine dei 2.000.000 di euro), a carico, naturalmente, di Spip. Mind Re lucra, poi, su un terreno della parrocchia di Ravadese, rivenduto a Spip a quasi due volte il prezzo di acquisto pagato dalla società di Borettini (febbraio 2007-luglio 2008). Altro acquisto dissennato è quello del terreno agricolo di 107.078 mq di proprietà di Ismaele Conforti, a opera direttamente di Spip (23 marzo 2007). Ismaele è padre di Paolo Conforti, agente alla Qualità urbana del Comune di Parma e amico d’infanzia di Pietro Lunardi. Prezzo al mq: 82,65 euro; un prezzo molto al di sopra del range dei prezzi dei terreni limitrofi (45-55 euro al mq). Il solo costo delle aree del progetto Spip 3 è ammontato a circa 67.000.000 di euro, interamente coperto dagli istituti bancari.

L’età ubaldiana

Con la vittoria del centrodestra alle amministrative del 1998, il potere oligarchico non ha più bisogno di dissimularsi nei patti irrituali con la politica, che ormai controlla direttamente. L’economico, il politico, il mondo dell’informazione locale: ormai ha fagocitato tutto. La figura istituzionale che lo rappresenta è quella del padre del civismo parmigiano che, in realtà, non fa che applicare, anche a Parma, il disegno biopolitico del neoliberismo berlusconiano: Ubaldi.

Ubaldi, oltre che padre del civismo, è stato l’inauguratore delle politiche urbanistiche e territoriali che, dal 1998 al 2011, hanno perfettamente rispecchiato il generale appello della neotelevisione berlusconiana «agli animal spirits che innervano la frammentazione individuale e consumista della società italiana» .
Un altro modo per dirlo è che la città sia rimasta, di fatto, silente, quando denaro e potere – questi i media non linguistici degli «spiriti animaleschi» – si sono impossessati dell’immaginario cittadino. Rimaniamo, però, convinti che se tali reagenti chimici erano alla base del sistema berlusconiano (nell’accezione habermasiana ) e se il loro “prodotto di reazione” si traduceva in un inaudito scavalcamento delle elementari regole di buon governo e dei principi di legalità e di democrazia, tutto ciò è stato possibile in gran parte a causa dell’indebolimento degli anticorpi democratici della civitas stessa, conseguente a una sua precoce malattia auto-degenerativa.

Ha avuto, dunque, facile presa il fittizio patto sociale della «seconda Parma»; fittizio in quanto fondato, in realtà, sulla divisione fra momento politico e momento sociale, cioè sul paradigma berlusconiano del «lasciatemi lavorare», eliminando le condizioni di fondo di quell’agire comunicativo, fondato sull’intesa e sul linguaggio, che fanno l’essenza della democrazia partecipativa e, insieme, che legittimano quella rappresentativa.

Alla Parma del centrodestra possono essere, perciò, legittimamente applicate le osservazioni che, nel 2003, Colin Crouch sviluppava a proposito dell’involuzione antropologica delle società liberal-democratiche occidentali: l’affermazione dei regimi postdemocratici in Occidente, consustanziale alle spinte corporative dei centri oligopolistici di pressione, dietro l’apparente continuità delle forme istituzionali democratiche.

Anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élites che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici.

Ecco, dunque, spiegata, se accogliamo l’interpretazione di Crouch, la ragione dell’indifferenza sistemica e generale dei più verso quel mondo di vita – fatto di culture, valori e pratiche quotidiane –capace di rafforzare il capitale sociale. Graziano Delrio lo vede manifestarsi nei sentimenti di fiducia, negli orizzonti di moralità diffusa, nelle pratiche di solidarietà verticali e orizzontali, nell’oblatività e nel rispetto delle regole: declinazioni locali dei valori di cittadinanza sanciti nella Costituzione.
Così, mentre rimaneva attiva solo nei suoi servizi sociali e nel volontariato, la sinistra parmigiana è finita espropriata anche di parte del suo elettorato o dell’elettorato giovane, che ha finito per sedersi alla nuova tavola di valori del frenetico attivismo dei sindaci pragmatici del fare. È all’interno di questa trasvalutazione valoriale del patto sociale che nascono, dunque, i sindaci che, invece del buon padre di famiglia, incarnano piuttosto la figura del «maggiordomo dissipatore» – per riprendere la felice espressione coniata da Ugo Mattei nel descrivere alcuni aspetti della rivoluzione reaganiana .

La funzione postdemocratica strategicamente più rilevante ai fini della nostra analisi è quella dell’esternalizzazione dei servizi a interesse generale. Funzione che anche recentemente è stata presentata, dai membri dell’ultima giunta Vignali, quasi con orgoglio: si sarebbe trattato della via più efficace, intelligente e vantaggiosa per spostare il costo degli interventi di trasformazione urbana nei bilanci di società esterne al Comune create all’uopo, consentendo all’ente locale di alleggerire i vincoli del patto di stabilità interno.
In questo modo, il debito di Parma è maturato quasi tutto al di fuori del potere comunale, ovvero in un altrove costituito dal pelago di partecipate del Comune: società di servizi pubblici locali, «finalizzate all’erogazione di servizi al cittadino o di pubblico funzionamento»; società strumentali, «che svolgono servizi o funzioni di interesse pubblico che il Comune ha preferito esternalizzare»; società per lo sviluppo locale, «che promuovono lo sviluppo del territorio»; società patrimoniali, «che sono proprietarie di reti, impianti, immobili e altre dotazioni» .

All’interno di questo mare magnum, solo una piccola porzione di società è responsabile della produzione di gran parte (72%, nel 2010) del debito complessivo del “Gruppo Comune di Parma”: si tratta delle società di scopo, create per realizzare specifici interventi sul territorio, in molti casi concernenti la trasformazione urbana (da cui le Stu). La forma giuridica scelta per queste Stu è stata quella della società di capitali. Dal momento che le spa sono sottoposte alle regole del diritto commerciale, «per quanto attiene agli scopi, agli organi di governo, ai controlli, si tratta di strutture che, proprio per la loro natura privatistica, orientano l’efficienza verso la produzione di profitti, piuttosto che verso la coesione economico-sociale» , ovvero l’interesse pubblico. Ma le Stu non nascevano come società di scopo, quindi con la finalità di realizzare «scopi specifici di interesse pubblico»? Eppure, a prevalere è pur sempre la forma di gestione privatistica dei beni e dei servizi pubblici, riconosciuta come pienamente legittima dalla legislazione vigente e dalla Corte di giustizia italiana.

Il punto allora è chiedersi se il sacrificio dell’interesse pubblico possa essere giustificato da una maggiore efficienza del privato. Eppure, la storia ha dimostrato il fallimento globale delle politiche di public-private partnership (Ppp) […]. Non funziona il privato chiamato ad “aiutare” il pubblico. Lo ha ammesso persino il Fondo monetario internazionale: «Non possiamo considerare un ‘dato di fatto’ che le partnership pubblico-privato siano più efficienti dell’investimento pubblico e dell’offerta dei servizi da parte dello Stato. Nella maggior parte dei casi, le Ppp si ‘fondano’ su un’idea di relativa maggiore efficienza del settore privato. Anche se c’è una letteratura estensiva sull’argomento, la teoria è ambigua e l’evidenza empirica mista» .

Le Stu spa non massimizzano l’interesse pubblico, ma il profitto; sono, dunque, dei monstra difficilmente «gestibili e orientabili nel tempo al perseguimento degli interessi pubblici» . Perché le Stu tendono a disegnarsi spazi di pressoché totale autonomia. Alcune considerazioni svolte da Alberto Lucarelli, pur se riferite al rapporto tra enti locali e società concessionarie del servizio idrico, forniscono indicazioni fondamentali anche per comprendere i principi elementari del rapporto fra pubblica amministrazione di Parma e Stu nei tredici anni del centrodestra.

È difficile immaginare che tra pubblica amministrazione e società concessionaria non sorga un rapporto di netta e sostanziale alterità, nel quale il controllo si riduca a profili di carattere esclusivamente formale. Con il tempo, tende a consolidarsi un rapporto fondato sull’autonomia. Le strade si separano. Il controllo esercitabile dall’amministrazione si limita ai provvedimenti consentiti dal diritto societario alla maggioranza dei soci. Una siffatta articolazione organizzativa e strutturale della società in house providing, oltre a eludere la regola generale dell’affidamento a un soggetto terzo mediante gara pubblica, finisce anche per non attribuire all’ente proprietario il necessario potere di ingerenza e di effettivo condizionamento delle attività .

«Netta e sostanziale alterità»; controllo pubblico di «carattere esclusivamente formale»; un rapporto, fra Comune e Stu, «fondato sull’autonomia» e la separazione; estinzione della gara pubblica per l’affidamento di opere a terzi; impossibilità di esercizio del necessario potere d’«ingerenza e di effettivo condizionamento delle attività» svolte dalle Stu: tutti questi termini esprimono, in modo molto efficace e immediato, la sostanza del rapporto che lega il Comune di Parma alle sue Stu.

C’è un secondo problema. Dal momento che l’oggetto delle società gestite con l’in house providing non riguarda la produzione di beni privati, bensì di rilevanza sociale (generale, pubblica), è ovvio che, quando il Comune non riesce a svolgere la sua funzione istituzionale di controllore, opera, nei fatti, un’espropriazione di carattere sociale (generale, pubblico), ovvero concernente il bene comune di una comunità democratica: la sovranità popolare. A ciò si aggiunga che la legge, una volta rispettate le condizioni del controllo interamente pubblico del capitale delle società affidatarie e dell’effettiva esistenza di un rapporto di dipendenza fra ente locale e spa pubblica, permette anche l’affido diretto di servizi, da parte del Comune, alle società concessionarie, senza prescrivere la necessità di gara pubblica. Il che si traduce:
a) in un considerevole supporto a possibili infiltrazioni della criminalità organizzata (data l’assenza di controllo effettivo da parte degli enti locali);
b) in una sottrazione di beni comuni immateriali costitutivi della democrazia: trasparenza e concorrenza.
Per aiutarci a comprendere l’importanza attribuita dal centrodestra locale all’in house providing dobbiamo sapere che tanto la legge italiana quanto la giurisprudenza permettono la costituzione di società a proprietà mista per gli enti in house, come peraltro è avvenuto con la nascita di Parmabitare e Stu-Pasubio.
Quindi, perché il 100% del capitale della grande maggioranza delle società di scopo (a parte Stu-Pasubio e Parmabitare) dev’essere pubblico? Forse perché l’art. 120 del Testo Unico degli Enti Locali (2000) specifica che la scelta dei soci privati deve avvenire attraverso una «procedura di evidenza pubblica»?
Una risposta che cerchi di andare al cuore delle nostre domande, in sostanza, ci conduce alla considerazione che siano proprio questi i dispositivi “linguistici” adottati dall’onnipervasivo paradigma proprietario e privatistico messo in piedi dal centrodestra. Questi, e non altri, sono gli strumenti operativi che ci volevano; strumenti che, sotto l’egida della legalità, realizzano, anche nel locale, la transizione decisiva dalla democrazia alla postdemocrazia, ovvero l’espropriazione di sovranità popolare.

Le origini storiche delle Stu sono dovute all’esigenza di ottimizzare i tempi impiegati per portare a termine i lavori e ridurre la spesa pubblica, obiettivi da conseguire attraverso la semplificazione del processo di progettazione e realizzazione delle opere pubbliche di riqualificazione. Le Stu sono, dunque, un’innovazione tecnica adottata dall’ordinamento italiano attraverso la legge n. 127 del 1997, sul modello delle Sem francesi. Si deve considerare che le Stu italiane arriveranno a godere di ampie libertà di azione negli spazi di libertà loro concessi da un ordinamento che sul tema rimane piuttosto vago, fino ad arrivare a svolgere attività eccedenti, quando non improprie, rispetto ai loro fini propriamente statutari.
Siccome, a due anni dalla loro introduzione, nessuna città italiana si è ancora dotata di questi strumenti, il Ministero dei Lavori pubblici, l’11 dicembre 2000, stende la circolare n. 622, volta a fornire alle pubbliche amministrazioni una guida interpretativa della norma, al fine di suggerire un iter procedurale per la costituzione di una Stu.

Parma è una delle prime città italiane a recepire il messaggio. Il sindaco Elvio Ubaldi invia alcuni tecnici al corso di aggiornamento sulle nuove società organizzato a Roma. Nel 2002 Parma possiede una delle prime Stu del Paese: quell’anno nasce, infatti, la Stu Pasubio, con lo scopo di realizzare il «quartiere che racchiuderà in sé le risposte a tutte le esigenze dell’uomo contemporaneo», cioè sei comparti a scopo residenziale, commerciale, direzionale e culturale (è compresa anche Casa della cultura) nella zona di via Trento-via Pasubio. Di questa società il Comune è socio di maggioranza, al 52%; il resto delle quote azionarie è in mano a privati.
Ormai il Sindaco Ubaldi sembra trovarsi a suo agio con questo strumento urbanistico, infatti l’anno seguente, nel 2003, nasce anche la Stu Stazione, partecipata, questa volta, al 100% dal Comune. Concepita per realizzare il progetto faraonico della nuova stazione, ha una lunga lista di opere in cantiere: due complessi edilizi per un totale di 18.400 mq di superficie utile vendibile suddivisa tra funzioni ricettive (46%), direzionali (30%), residenziali (19%) e commerciali (5%), più tre livelli interrati da 13.200 mq per 420 posti auto privati. Circa 167 milioni di euro complessivi. Il progetto viene affidato all’architetto catalano Oriol Bohigas, che, stanco di aspettare i soldi, pignorerà i beni della società per circa 2 milioni di euro. Titolare dell’appalto, invece, è l’Ati Bonatti – Di Vincenzo. La prima pietra verrà posta il 16 marzo 2007. Quello della stazione è, fra tutti, il cantiere che darà i maggiori problemi: i lavori sono fermi tutt’oggi, con le ditte appaltatrici che si rifiutano di accettare le proposte dell’amministrazione volte ad operare una ristrutturazione del debito. Debito che, al 2010, ammonta a 119.088.000 euro. Il più alto tra tutte le Stu.
Nella primavera 2002 scade il mandato di Ubaldi, che viene però rieletto, ottenendo, così, la possibilità di continuare il percorso intrapreso: quello di “Parma città-cantiere”.

Le Stu continuano a nascere come funghi. Nel 2005 nasce una delle più ambiziose, certamente quella più discussa e gravida di conseguenze: Metro Parma spa. La nuova metropolitana dovrebbe trasportare – si dice nel progetto – «24 milioni di potenziali passeggeri». Nonostante una delibera di Metro Parma spa riconosca l’impossibilità che i passeggeri superino gli 8 milioni e mezzo, nel progetto definitivo – mai approvato – torna a farsi largo la cifra di 24 milioni di passeggeri. Il tutto, per una città di circa 180 mila abitanti . Sempre nel 2005 nasce Città delle Scienze spa, soci Unipr, Soprip spa e Spip spa (poi 100% Comune) per realizzare, progettare e gestire il Parco Scientifico e Tecnologico da situare nelle adiacenze del Campus universitario. Sempre nel 2005, nasce CasAdesso spa, partecipata al 100% dal Comune, con lo scopo di progettare, realizzare e gestire edifici per la creazione di alloggi di “transizione” da occupare a tempo determinato e a rotazione, al fine di agevolare la costituzione di nuovi gruppi familiari. Tre sono i Progetti: Budellungo, Vicofertile, Botteghino, per un totale di circa 12 milioni di euro.

L’anno successivo nasce la Stu Authority. Partecipata al 100% dal Comune, si prefissa di realizzare la sede dell’Autorità per la sicurezza alimentare (Efsa) di viale Piacenza: un blocco triangolare di 11 piani per un’altezza di 40 metri e un volume complessivo di 50 mila metri cubi su un lotto edificabile di 22 mila metri quadrati. Il tutto, per circa 47 milioni di euro complessivi.
Vincitrici dell’appalto saranno la cooperativa Unieco e la ditta Mingori Costruzioni.
La Stu Authority amplierà, negli anni successivi, il proprio raggio di intervento, facendosi carico dei progetti di ristrutturazione del complesso sportivo (più residence) “Quadrifoglio” e della realizzazione della Scuola europea, oltre che di interventi infrastrutturali, il più importante – e ingombrante – dei quali è certamente il Ponte Nord per il collegamento tra via Brennero e via Reggio con la nuova sede Efsa.
Quest’ultimo è un project financing dell’Associazione temporanea di impresa Pizzarotti-Codelfa, per un costo di 71 milioni (25 del Comune). Le imprese appaltatrici, «in cambio, realizzeranno un centro direzionale pubblico sul lato di via Reggio, un albergo e un’autorimessa» .
Sebbene un consigliere di opposizione dell’epoca racconti che sul progetto originario ci fosse la firma del direttore generale del Comune, Carlo Frateschi – probabilmente per evitare polemiche sul conflitto di interessi del vero autore – tutti sapevano fin dall’inizio che a disegnare il nuovo ponte era stato l’architetto Vittorio Guasti, ex vicesindaco di Parma nella prima giunta Ubaldi fino al 2001, senatore di Forza Italia dal 2001 al 2006 e capogruppo di Impegno per Parma in Consiglio comunale dal 2007 al 2009. Quest’ultimo incarico dovette abbandonarlo, spinto dalle polemiche «legate all’opzione di terreni edificabili inseriti nelle nuove aree di espansione del Piano operativo comunale» . Si rifece due anni dopo, diventando membro della Fondazione Monte Parma in quota Comune. A rivelare che del progetto del Ponte Nord si sarebbe occupato lui sarà Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio, durante una visita a Parma.

Il 2007 è l’anno in cui finisce il secondo mandato di Ubaldi. Nonostante il peso elettorale maturato a Parma, non riesce il suo tentativo di diventare deputato nelle liste dell’Udc. Questo, però, non gli impedisce di imporre a Parma il suo delfino, agente per l’Ambiente durante la sua prima giunta e assessore alla Mobilità ed Ambiente durante la seconda: Pietro Vignali. Vignali vince, e Ubaldi diventa presidente del Consiglio comunale. A Roma non ci va nemmeno, ma la poltrona la perde lo stesso. Ben presto, infatti, prendono piede le forze berlusconiane, che durante i suoi nove anni di amministrazione aveva tenuto in una posizione tutto sommato marginale, pur avvalendosi del loro sostegno elettorale. Le spregiudicate operazioni finanziarie, nella nuova giunta, iniziano immediatamente.
Nel 2008 viene realizzata l’operazione che diventerà pratica abituale in futuro. Il Comune ha bisogno di soldi freschi per far quadrare i bilanci. Quindi, ha bisogno di vendere terreni pubblici. A questo scopo, i terreni dell’ex mercato bestiame di via dei Mercati sembrano essere perfetti. Vengono, così, disposte perizie per la stima del prezzo complessivo dei terreni. La prima perizia stima il prezzo complessivo in 7 milioni. Il Comune, evidentemente, non è soddisfatto. Servono altri soldi. Segue, così, a pochi giorni di distanza, una seconda perizia. La stima, questa volta, è di 21 milioni. Aggiudicato. L’area, quell’anno, era stata inserita nel piano delle alienazioni comunali. I terreni vengono venduti a questo prezzo al Centro Agroalimentare e Logistico (Cal) (unica offerta avanzata), con sede proprio in via dei Mercati, i cui soci sono: Comune (maggioranza), Banca Monte Parma, Cariparma, Camera di Commercio e Regione Emilia-Romagna. In pratica, è un’operazione per esternalizzare il debito, che viene scaricato su una società partecipata: il Comune ha venduto i suoi terreni a se stesso. Ma l’operazione non è finita qui. Continua l’anno successivo, quando, su input del Cal, viene creata l’Agenzia per la logistica delle filiere agroalimentari (Alfa), partecipata al 100% dal Comune, al fine di realizzare e gestire un polo di ricerca e logistica nei 39 mila metri quadrati di superficie lorda utile dell’ex mercato bestiame. Curioso è notare che presidente di Alfa è Andrea Costa, che è anche il presidente del Cal. Il Cal, quindi, vende i terreni ad Alfa. Il problema è che questa operazione non è per niente indolore, perché Alfa è costretta, per acquistare l’area, ad indebitarsi con Banca Monte per circa 14 milioni di euro. Debito che non verrà mai saldato e che, già nel 2010, avrà maturato interessi per oltre 200.000 euro. Alfa non riuscirà a sostenere il peso dei debiti e, due anni dopo, oltre a rinunciare ai propri progetti, verrà messa in liquidazione.
Il nuovo sindaco si spende anche per proseguire le opere lasciategli in eredità dal padre politico. Nell’aprile 2008, l’Ati Pizzarotti-Coopsette-Ccc, raggruppata in Metro Leggera, vince l’appalto per la metropolitana.
Al 31 dicembre 2008, l’indebitamento complessivo delle Stu (Casadesso, Parmabitare, Metro Parma, Stu Authority, Stu Pasubio, Stu Stazione e Spip) ammonta a 162.286.000 euro. La sola Spip presenta un rosso 78.700.000 euro. Metro Parma, invece, di 2.611.000 euro. L’assessore al Bilancio, Gianluca Broglia, precisa: «Si tratta di società che realizzano grandi opere e ricorrono in modo massiccio all’indebitamento bancario e in questa congiuntura di crisi faticano a rientrare negli investimenti da un punto di vista economico-finanziario» .

l modello Stt

La holding pubblica Stt spa, creata nel 2009 dalla giunta Vignali, viene presentata alla città come strumento di razionalizzazione del sistema delle Stu.
Il suo oggetto sociale la definisce come una centrale strategica. Stt, infatti, non solo è chiamata a progettare e realizzare interventi complessi per la trasformazione, riqualificazione e valorizzazione del territorio, ma anche ad assumere e gestire le partecipazioni in altre società o enti – Stt arriverà a controllare la totalità del capitale sociale delle sue controllate, ovvero otto società di scopo1 – nonché ad assicurare la prestazione, a favore delle società partecipate, di servizi strumentali e attività comuni.

Ma questa “razionalizzazione” non si vedrà mai. Perché Stt viene calata dall’alto su un corpo disarticolato, senza che alla stessa vengano forniti gli strumenti per l’effettivo esercizio di governance. Si deve notare, infatti, che il consiglio comunale predisporrà uno strumento per la governance solo con la delibera del 13 luglio 2011, ovvero dopo gli undici arresti di tre settimane prima (24 giugno),

da attuarsi mediante la predisposizione di un regolamento che consenta di realizzare un costante monitoraggio del “sistema partecipazioni”, […] attuare una più efficace azione di indirizzo e di controllo nelle società cui partecipa, definendo in particolare regole in tema di “controllo analogo”, possibilmente applicabili, per analogia, alle diverse partecipate […] nel rispetto dei principi cardine di buona amministrazione contenuti nell’articolo 97 della Costituzione1.

Dalla nascita delle prime Stu ubaldiane fino al 13 luglio 2011, la funzione d’indirizzo e controllo verso le società partecipate e gli enti controllati dall’amministrazione comunale (consorzi, istituzioni, associazioni e fondazioni) è affidata al delegato alle partecipate, cioè al vicesindaco Paolo Buzzi, incaricato di partecipare ai consigli di amministrazione di Stt e di rapportarsi con la commissione di controllo alle partecipate, composta da membri dell’opposizione del consiglio comunale. Desta sorpresa trovare, nelle pagine istituzionali di presentazione del nuovo Regolamento, che fin dal 2005 ci si era resi conto del malfunzionamento del sistema di controlli e che dunque, a partire da allora, era stato avviato un progetto di ridisegno della governance. Un’attesa di sei anni difficilmente comprensibile alla luce del monte debiti che continuava a crescere e che avrebbe richiesto interventi d’urgenza.
Quindi, dal 2009 (anno della sua creazione) al 2011 (anno della regolamentazione dell’intero “sistema partecipate”) Stt, invece di favorire la “razionalizzazione”, in realtà non fa che produrre l’opposto, rafforzando l’opacità del potere; potere che viene concentrato nelle mani del suo presidente; potere quasi assoluto e poco “illuminato”, che non fa che aumentare i debiti, alimentare il convulso passaggio delle partecipazioni intersocietarie per coprire le continue falle sistemiche, rendendo, alla fine dei conti, un contributo fattivo in termini di improvvisazione e caos finanziario.
Tutto ciò è ancor meno razionale se consideriamo il seguente e oltremodo significativo paradosso, quello di collocare una società proprio nello spazio dell’auspicato rapporto di in house providing tra Comune e società di trasformazione urbana; uno spazio che, per avere un senso logico, un buon amministratore dovrebbe lasciare vuoto. Non è, infatti, un caso che la legge prescriva la subordinazione sostanziale delle società affidatarie alla macchina amministrativa, definendo il controllo che si deve esercitare su di esse come «controllo analogo», ovvero simile a quello che il Comune è chiamato a svolgere nei confronti dei propri uffici comunali.
Il legislatore ritiene che il controllo analogo si realizzi quando gli enti locali sappiano effettivamente intervenire all’interno delle scelte di gestione e di organizzazione di tali società, secondo un principio d’ingerenza effettiva e istituzionale. Ma Stt è propriamente un’holding di intermediazione tra Comune e Stu: il che comporta proprio la diluizione, quando non l’indebolimento, in tutto o in parte, dei poteri d’ingerenza sulle decisioni del produttore in house.Quali i risultati di tale paradosso?
Proviamo a rispondere utilizzando, per analogia, una significativa descrizione degli effetti del sistema delle partecipazioni statali che si fondava proprio sull’esistenza di holding pubbliche. Nel 1991, il noto giurista Francesco Galgano, in un semplice testo per gli istituti tecnici commerciali, usava le seguenti parole.

I livelli decisionali superiori – ministero, comitato interministeriale, parlamento – funzionavano con moderata incisività, lasciando mano libera ai manager dei livelli inferiori. Il sistema, per unanime giudizio, ha finito con il tradursi in un gigantesco corpo separato dello Stato, sottratto alla direzione e al controllo democratico, piegato a servire gli interessi dei più forti gruppi capitalistici privati o, peggio, asservito agli interessi clientelari e di sottogoverno del potere politico.

Il libro: «Sconvocati» di Marco Severo, con un saggio di Marco Adorni e Michele Guareschi, Fedelo’s editrice