L’occasione sarebbe di quelle ghiotte. Proprio mentre il dissidente Chen Guangcheng lascia l’ambasciata Usa a Pechino aprendo i riflettori su un altro caso di dissidente sotto pressione, a Bruxelles arriva Li Keqiang, il vicepremier cinese che nel 2013 dovrebbe diventare il nuovo leader della superpotenza asiatica. Un evento preparato da un fondo dello stesso Li sul Financial Times.
«La Cina – scrive il vicepremier – sostiene con forza l’integrazione dell’Europa e considera l’Ue come un partner che merita la nostra fiducia». In agenda di questa visita di tre giorni, di tutto di più: clima, energia, la richiesta cinese di vedersi riconosciuta dall’Ue come “economia di mercato”, la questione delle terre rare in buona parte in mano cinese, l’ulteriore apertura del mercato europeo.
Per l’Europa, si sa, la Cina è ormai cruciale, fanno gola le sue gigantesche riserve valutarie, di recente sia il capo del fondo salva-stati Efsf, Klaus Regling, sia lo stesso Mario Monti sono andati all’ombra della Grande Muraglia per convincere i cinesi a investire in Europa e, magari, a comprare qualche miliardo di titoli Efsf e di vari Stati in difficoltà. «La Cina – ammicca lo stesso Li nel suo fondo – sostiene con forza l’Europa a parole e fatti nei suoi sforzi per superare l’attuale crisi», Pechino «ha quasi raddoppiato i suoi investimenti diretti in Europa, e a più riprese ha acquistato titoli emessi da paesi europei».
Il messaggio è chiaro, e l’Europa – oltretutto profondamente divisa a livello di Stati membri nell’atteggiamento da assumere con Pechino – l’ha ben recepito. Tanto bene che la Commissione Europea, con irritazione del folto corpo stampa di Bruxelles, ha preferito omettere qualsiasi incontro del cinese con i corrispondenti: niente conferenza stampa, neppure un punto veloce, e nemmeno una semplice dichiarazione senza domande. I giornalisti dovranno accontentarsi di notare i cortei di auto blu a Bruxelles, ascoltare il rombo degli elicotteri nel piovoso cielo belga, ammirare qualche immagine televisiva o qualche foto. Punto. In tre giorni non c’è “tempo” per un contatto dei cronisti con Li. Basta fare due chiacchiere per trovare a Bruxelles chi ti spiega l’ovvia ragione, che comunque si capiva da sé: evitare qualsiasi domanda “scomoda” all’illustre ospite, per non indisporlo. Insomma, l’Ue fa propria la prassi cinese del rapporto con la stampa: non deve disturbare.
L’imbarazzo di Pia Ahrenkilde-Hansen, portavoce del presidente dell’esecutivo Ue José Manuel Barroso, bombardata di domande al consueto briefing di mezzogiorno, oggi era più che evidente. «È vero – ha dovuto ammettere – per la stampa abbiamo previsto solo photo–opportunity. Ma state tranquilli, che provvederemo a informarvi con regolari comunicati». Senza diritto di replica e di domanda, ovviamente. Della serie: accontentatevi della veline. È normale che Bruxelles si faccia influenzare dai “desiderata” dell’ospite? le chiedono. «È normale – replica la funzionaria – concordare con l’ospite che tipo di comunicazione si vuole fare. Abbiamo organizzato ciò per cui i cinesi si sono resi disponibili».
Certo, i cinesi non li si poteva costringere – anche se magari si poteva insistere un po’ di più – ma illuminante è il fatto che Barroso non incontrerà la stampa neppure da solo, magari a visita finita. «I suoi impegni non glielo consentono», è la risposta. Rammarico per questa situazione? Macché.
La visita è stata preceduta da chiari avvertimenti da parte cinese. «Deve esserci rispetto reciproco» ha affermato in una dichiarazione l’ambasciatore di Pechino presso l’Ue, Wu Hailong. «Dobbiamo espandere il terreno comune – aggiunge, più cortese, il vicepremier Li su Ft – mantenendo però le differenze, e sforzarci di costruire una partnership di rispetto e fiducia reciproca».
I diritti umani? Il caso Chen? «Non è escluso che il tema sarà affrontato, come facciamo spesso in questi casi», assicura Ahrenkilde-Hansen. E in effetti, a onor del vero, due giorni fa la delegazione Ue a Pechino a proposito del caso Chen ha esortato le autorità cinesi «a mostrare moderazione» nei confronti del dissidente. Ed è vero che la questione dei diritti umani viene sollevata regolarmente con i cinesi, ma quasi sempre accuratamente dietro le quinte e soprattutto senza alcun tipo di conseguenza.
Perché continuano a esser siglati accordi su accordi, proseguono i regolari summit Ue–Cina, rarissime le proteste ufficiali, e intanto gli affari vanno a gonfie vele («oggi, oltre 1,5 miliardi di dollari in merci sono scambiate quotidianamente tra Cina ed Europa», ricorda Li), mentre paesi come la Germania si sono sottratti alle grinfie della crisi anzitutto grazie all’export con la Cina. Non che sia sbagliato fare affari con Pechino, ormai nuova grande potenza mondiale, per carità. Ma il fatto è che l’Europa non chiede mai niente in cambio. E dimenticare il diritto di cronaca nel bel mezzo dell’Europa per timore che il potente del Celeste Impero possa seccarsi, beh, questo è un po’ troppo.
Non dicono Barroso e i suoi che «i valori fondanti dell’Ue non sono negoziabili»? Con i forti, si sa, è meglio non esagerare con la coerenza. Come ci veda Pechino, del resto, lo sintetizzava già tempo fa, l’intellettuale vicino al regime Pan Wei, intervistato dallo European Council for Foreign Affairs (un think tank sulla politica estera Ue): «l’Ue è debole, politicamente divisa e militarmente senza influenza. Economicamente è un gigante, ma non ne abbiamo più paura perché sappiamo che l’Ue ha più bisogno della Cina di quanto la Cina abbia bisogno dell’Ue». Al punto da non avere neppure il coraggio di insistere per un miserabile, brevissimo punto stampa. Chi vuole, potrà leggerci un lampante simbolismo.