Catia Silva ha la vocazione del parafulmine. Da dieci anni è segretario della Lega Nord di Brescello, il paese di Peppone e Don Camillo. «Non sono mai diventata consigliere comunale – dice a Linkiesta – ho sempre lasciato che si candidassero quelli che avevano il tempo di seguire le sedute del consiglio». Nel frattempo si è beccata un bel po’ di minacce dalla ‘ndrangheta per aver denunciato i tentativi di infiltrazione in Comune.
Il 4 aprile di quest’anno è andata di fronte ad un notaio per rilevare l’azienda nella quale lavorava, «si tratta di un centro edile – ci spiega – forniamo perlopiù materiale inerte. I vecchi proprietari volevano uscire, rischiavamo di chiudere, così siamo entrati io e il mio socio». Perché, le chiediamo, pur sapendo che nel suo territorio la ‘ndrangheta investe proprio nell’edilizia, si è impegnata in questa attività? «Perché ci lavoravo da sempre e certe persone nel mio ufficio non le faccio neanche entrare. Una volta uno viene in azienda e mi propone di comprargli del materiale di risulta ad un buon prezzo. Aveva dei camion da scaricare che arrivavano pieni chissà di cosa e da chissà dove. L’ho cacciato via, dopo anni di convivenza resto dell’idea che questi, se non gli dai corda, cambiano zona». Ma le difficoltà per rilevare l’azienda sono iniziate dalla ricerca di un finanziamento. «Ho proposto in garanzia la mia casa di campagna. Dalle banche mi è stato risposto che delle case non se ne fanno più nulla e che in questo momento si tengono stretta la liquidità, che poi è proprio quella che manca alle imprese. Allora ho chiesto alla funzionaria: dove avete messo i soldi della Bce? Qui Il 90% delle aziende vive di anticipo fatture, ma sa che le dico? Preferisco un’impresa che non può pagare o che mi cede i propri crediti ad una che ha preso soldi dagli usurai della ‘ndrangheta, che qui finisce che si prendono tutto».
E basta spostarsi qualche chilometro a sud per imbattersi in storie come quella di un imprenditore di Cremona, proprietario di un bar del centro. La crisi l’ha colpito due volte. La prima quando, con il calo dei consumi, nel suo locale gli affari hanno iniziato ad andare male, la seconda nel momento in cui si è visto rifiutare, una dopo l’altra, le richieste di finanziamento che aveva presentato alle banche per pagare i fornitori. Così l’anno scorso si è rivolto ad un conoscente che gli ha offerto subito e senza storie 15.000 euro, per tenere buoni i creditori. Il tasso che ha accettato era del 260% annuo. Le rate però erano altissime e i conti del bar non miglioravano. Allora ha chiesto un altro prestito di 10.000 euro, sempre alla stessa persona, questa volta ad un tasso del 162%. In un anno ha versato, solo di interessi, più di 50.000 euro al suo strozzino.
Poi, qualche settimana fa, è arrivata la Guardia di Finanza e ha scoperto che l’usuraio chiedeva a sua volta denaro in prestito alla criminalità organizzata, che in Emilia si chiama ‘ndrangheta. In città, ci dicono i colleghi del Piccolo, nessuno ha voglia di parlarne. E allora abbiamo provato a metterci in contatto con Silvia Camisaschi, responsabile di Libera Cremona, ma neanche lei ha saputo dirci molto di più: «manca uno studio approfondito su questo territorio – ha detto a Linkiesta – a differenza di altri posti in cui la presenza mafiosa è più palese, qui mancano materialmente i dati per comprendere il fenomeno». Segno che la ‘ndrangheta sta facendo bene il suo mestiere.
«L’accesso al credito è una questione di vita o di morte per gli imprenditori stessi». A dirlo è stato giovedì scorso il neo-vicepresidente di Confindustria, Aurelio Regina. «I prestiti alle aziende hanno subito una frenata – ha proseguito di fronte agli imprenditori romani – e i costi del credito sono troppo alti. Il credit crunch, unito ai ritardati pagamenti, sta stritolando il tessuto produttivo. La difesa delle banche non può tradursi nella falcidia delle imprese italiane». Regina ribadisce un concetto che è apparso ormai evidente da qualche mese: a causa della stagnazione del credito le imprese, specie quelle a basso rating, sono costrette a scegliere tra la cessazione delle attività e la ricerca di liquidità in quei bacini dove si trovano gli unici capitali in movimento, quelli illeciti.
Torniamo alla fine dell’estate dello scorso anno, quando le aziende iniziavano a lamentare l’innalzamento del costo dei finanziamenti dovuto alla crisi del mercato interbancario. In quel momento le banche avevano difficoltà nel prestarsi denaro a vicenda e questo portava su gli interessi praticati sui prestiti. Poi la Banca centrale europea ha iniziato ad irrorare di liquidità il sistema bancario. Questo però, lamentano gli imprenditori, non ha portato ad una conseguente agevolazione delle linee di credito verso le imprese. Anzi. I dati della stessa BCE indicano come la percentuale di finanziamenti rifiutati dalle banche alle piccole e medie imprese abbia toccato nel primo trimestre del 2012 il 13%, la più alta dal 2009.
E nella palude del credito chi ha denaro da muovere finisce per prendersi tutto. Il Rapporto Italia dell’Eurispes dice che le denunce per usura dal 2010 al 2011 sono aumentate del 21 per cento. Guardando ai mutui si scopre che il 33,1% è stato richiesto per far fronte al pagamento di debiti accumulati nel tempo mentre il 20,9% per saldare un debito contratto con un’altra banca. E tra coloro che si sono visti rifiutare un finanziamento dagli istituti di credito emerge un dato preoccupante: alla domanda diretta se si sia mai fatto ricorso ad un prestito concesso da un privato che non fosse un amico o un parente il 6,3% ha risposto di si.
Dal 1999 chi denuncia il proprio strozzino può accedere al fondo di solidarietà per le vittime di racket e usura facendo domanda al prefetto tramite le associazioni che si occupano di strozzinaggio o direttamente dai confidi. La prefettura, dopo aver raccolto gli elementi, invia una relazione al commissario straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket che ha l’ultima parola sui finanziamenti. Per ottenere l’aiuto del fondo chi ne fa richiesta deve aver cessato ogni rapporto con i suoi usurai e deve aver fornito all’autorità giudiziaria ogni particolare relativo alle estorsioni subite.
Solo che, fino al febbraio di quest’anno, le aziende fallite, e cioè quelle che rischiano di finire nelle mani delle mafie per due soldi, erano escluse dalla possibilità di presentare domanda. Ora il governo è intervenuto cambiando la norma e aprendo anche a queste aziende la possibilità di accesso. Al momento della sua nascita il fondo garantiva 100 miliardi di lire l’anno. Dal 2002 al 2008 gli stanziamenti approvati oscillavano tra gli otto e i nove milioni di euro. Nel 2009, in concomitanza con la crisi, si sono sfiorati i quindici milioni. Poi, dal 2009 al 2010, il numero di istanze accolte è calato, passando da 165 a 127. Il dato degli stanziamenti nel 2010 è stato di 8.832.000 euro e nel 2011 si è assestato sugli 8.867.000 euro.
«Siamo noi il vero fondo anti-suicidi» dice a Linkiesta Giuliano Rosolen, direttore provinciale della CNA di Treviso. Tramite il consorzio Canova, la CNA della città veneta fornisce garanzie ai prestiti erogati a quegli artigiani espulsi dal circuito bancario, clientela facile per gli usurai. «Noi per otto anni non abbiamo avuto finanziamenti da parte dello Stato. Poi nel 2011 ci è stata data una cifra cinque volte inferiore a quella che avevamo richiesto per rifinanziarci. Qui, nonostante la crisi, il tasso di restituzione non è calato di molto. Se nel 2008 era del 99,6% ora siamo al 97%». Tra il 2010 e il 2011, racconta, sono esplose le pratiche di accesso: si è passati da uno stanziamento complessivo di 100.000 euro messi a garanzia dei prestiti da parte dei confidi, a fronte delle richieste di tre aziende, fino ad uno di un milione di euro, ripartito su trenta aziende.
Nel 2009 si era toccato il picco massimo. In quello che si pensava fosse l’anno peggiore della crisi, il fondo aveva messo a garanzia a Treviso 730.000 euro per 13 imprese. Il dato del 2011 rappresenta dunque un nuovo record sia in termini di entità dei finanziamenti sia per il numero di aziende interessate. «Quello che manca è la liquidità, le banche hanno chiuso i rubinetti» dice don Gigi Tellatin, responsabile di Libera Veneto a Linkiesta. «Il problema del lavoro, qui più che altrove, si identifica con la vita delle persone. Anche chi ormai ha perso tutto spesso non denuncia fino in fondo e questo porta ad un allungamento dei tempi, sia nelle indagini sia nell’erogazione dei fondi per aiutare le vittime dell’usura. In questo momento lo stato deve fare tutto quello che può per far capire che stare dalla parte della legalità conviene, anche economicamente».