Ecco perché gli indignados spariranno dalla Storia

Ecco perché gli indignados spariranno dalla Storia

Tra qualche giorno il movimento 15 maggio, noto ai più come “indignados”, compirà un anno. Linkiesta ha avuto l’occasione di seguirlo da vicino fin dal primo momento, anche per motivi in un certo senso anagrafici: quando il giornale è andato online, a fine gennaio 2011, i media di tutto il mondo erano impegnati a raccontare l’onda araba che da Tunisi aveva contagiato Il Cairo. Esattamente quel vento rivoluzionario a cui si sono ispirati, come c’è scritto nel loro manifesto, gli studenti e i disoccupati di Democracia Real Ya! che per primi si sono accampati a Madrid, in Plaza del Sol, a una manciata di giorni dal voto amministrativo nel Paese, per protestare contro la disoccupazione e l’euroburocrazia.

Fu un successo travolgente, anche grazie al passaparola via social network, esattamente come avvenuto in Egitto e Tunisia, che coinvolse nella sola capitale oltre 50mila persone. Il 20 maggio scorso la rivoluzione spagnola arrivò anche in Italia, ma fu un flop. Per una semplice ragione, espressa sul profilo di uno dei gruppi nati per l’occasione: «Non si sa ancora cosa sia, ma si sa che è pacifica, è nata su Twitter come le rivoluzioni arabe e non intende fermarsi». Nessun programma, nessuna idea ma un generico supporto agli accampati di Madrid. Risultato: quattro gatti, per giunta spagnoli.

Indignados in Plaza de Catalunya a Barcellona (Foto da Flickr di calafellvalo)

In questi giorni in ottanta città spagnole, e anche a Roma – il 15 è prevista una manifestazione in piazza San Giovanni – gli indignati torneranno sulla strada per celebrare la nascita del movimento. El Paìs ed El Mundo, due tra i principali quotidiani iberici, nelle loro edizioni online, dedicano ampio spazio alla ricorrenza, non lesinando critiche né ai protagonisti «è ora di crescere», sostiene El Paìs, né al governo di Rajoy, che recentemente ha introdotto nuove norme che mirano a punire anche la resistenza passiva a pubblico ufficiale. Il motivo è facilmente intuibile: due giorni fa è stata nazionalizzata Bankia, terzo istituto di credito del Paese, gli istituti di credito non hanno ancora svalutato i propri attivi immobiliari e i mercati sono preoccupati dalla possibilità che Bruxelles sia costretta a lanciare un salvagente anche a Madrid, dopo Atene, Dublino e Lisbona. Le conseguenze del modello di sviluppo voluto dall’ex premier Zapatero, insomma, devono ancora palesarsi sui bilanci delle banche. Mentre la disoccupazione giovanile colpisce il 52% dei lavoratori under 25. 

Gli indignati italiani hanno invece avuto bisogno dell’America per prendere coraggio. Soltanto dopo il successo di “Occupy Wall Street”, anche in questo caso un movimento sì spontaneo, ma con un programma e un’agenda ben precisa, i manifestanti hanno invaso Roma il 15 ottobre, andando subito in debito d’ossigeno per colpa della furia dei black bloc. Da quando, quel giorno, la tranquilla via Labicana diventò la prima linea di un’ipotetico fronte contro la polizia, il movimento è morto sul nascere. 

IUn momento della manifestazione del 15 ottobre 2011 a Roma  (Foto da Flickr di Rossolev)

Un peccato, perché nei giorni precedenti qualche volenteroso si era preso la briga di stilare una bozza di programma, prendendosela con l’allora presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, e con l’ex governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che oggi siede proprio al vertice di Eurotower, chiedendo l’annullamento delle riforme imposte – e poi peraltro ampiamente disattese dal governo Monti – dalla lettera congiunta firmata dai due burocrati appartenenti all’1% della popolazione.

I contenuti del manifesto, profondamente diversi dalle idee degli indignados spagnoli – cancellazione della spesa militare, gratuità della formazione universitaria, divieto di utilizzare capitali pubblici per salvare la finanza – erano incentrati soprattutto sulla questione generazionale, che «non si risolve togliendo i diritti a chi li aveva conquistati, i genitori, ma riconoscendo diritti a chi non li ha, i figli, e per far questo ci vogliono risorse, altrimenti le parole girano a vuoto».«Com’è possibile invertire la tendenza e promuovere delle politiche pubbliche a sostegno delle giovani generazioni prendendo sul serio le letterine estive di Trichet e Draghi?», si chiedevano gli indignati italiani, indirizzando al presidente Napolitano una richiesta ben precisa: «Sarebbe un atto di semplice giustizia fare in modo che non siano sempre gli stessi a pagare questa crisi. Siano, piuttosto, coloro che l’hanno prodotta a pagare, attraverso una tassazione delle rendite finanziarie, delle transazioni, dei patrimoni mobiliari e immobiliari». Per inciso, a Palazzo Chigi c’era ancora Berlusconi, e Mario Monti non aveva ancora introdotto l’Imu.

Un momento della manifestazione “Occupy Wall Street” dello scorso 10 agosto (Foto da Flickr di The Whistling Monkey)

Ironia della sorte, mentre dai risultati delle amministrative italiane è emerso il successo Beppe Grillo, che incarna gran parte delle istanze degli indignados ma non si è mai mischiato, è il nuovo premier francese Hollande ad aver riportato alla ribalta alcune proposte da cui ha preso spunto il movimento nato il 15 maggio in Plaza del Sol. A onor del vero non sono stati nemmeno i primi: già i no global di Seattle e Porto Alegre avevano saccheggiato le idee socialiste sulla spesa pubblica. 

Forse in Spagna andrà diversamente, ma la sensazione è che in Italia gli indignados siano destinati a finire nel dimenticatoio come prima di loro i girotondini e il popolo viola. Tralasciando la gambizzazione di Adinolfi, top manager dell’Ansaldo Nucleare, oggi il nemico numero uno è Equitalia, cioè l’esattore delle tasse, lo Stato che chiede al cittadino di essere in regola quando è lui stesso a onorare le proprie pendenze in ritardo e a non subire alcuna sforbiciata dai tecnici al Governo. Oggi l’ex brigatista Renato Curcio, intervistato da Repubblica, ha detto: «La realtà è quella della crisi che coinvolge tante persone e le mette di fronte a situazioni insostenibili. Quella è la realtà, molto concreta e molto poco simbolica». Nonostante, come sostiene il filosofo tedesco Hans Magnus Enzesberger, l’Unione Europea incarni un deficit di comprensione democratica, prendersela con Bruxelles – inteso come simbolo – è estremamente facile, ma estremamente difficile da tradurre in pratica a livello di proposta politica che nasce dalla protesta. Soprattutto quando non si arriva alla fine del mese. Per questo il movimento, che nasce più dallo spread che dalla recessione, è già fuori tempo massimo.  

Twitter: @antoniovanuzzo

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