Gli italiani vendono i gioielli di famiglia, la Svizzera compra e ringrazia. Effetto recessione: secondo i dati raccolti da Thomson Reuters GFMS, nel 2011 l’Italia si è piazzata, con 116,5 tonnellate, al terzo posto nel mondo dietro alla Cina come produttore di oro riciclato (vendita da parte di singoli di oro usato e scarti di lavorazione). D’altronde, la domanda globale d’oro, dopo un aumento dell’11% nei 10 anni precedenti, dal 2002 a oggi ha rallentato a quota 7 per cento, pari a 2.800 tonnellate l’anno.
I dati di Banca Etruria, istituto di credito che rappresenta un “hub” nazionale per la compravendita di oro, evidenziano la debacle dei distretti orafi come Vicenza, Arezzo e Valenza Po: nel 2002 in Italia si producevano 412 tonnellate di gioielleria, nel 2001 solo 93,8, rispetto peraltro alle 116 tonnellate del 2010 (-20%). Le componenti della domanda del metallo pregiato sono tre: gioielleria, uso industriale (come protesi dentistiche) e oro da investimento. Se la seconda è marginale, circa il 6-7% del totale, la prima copre il 50% della domanda, ma è in discesa, mentre sale la terza componente, oggi al 40% circa. Ed è quest’ultima a incidere sulle esportazioni al di là delle Alpi. Ad esempio, nel 2010 Banca Etruria ha venduto 300 kg di oro da investimento, nel 2011 1,7 tonnellate.
Il fenomeno è stato evidenziato dall’Istat un mese fa. Secondo gli esperti dell’istituto di statistica guidato da Enrico Giovannini a gennaio 2012 l’export dell’oro greggio non monetario – leggi lingotti – è aumentato del 149,8% rispetto al 2011, anno in cui il comparto ha segnato +109% sul 2010, portando il dato complessivo delle vendite 2011 nella confederazione elvetica a +35,6% sul 2010. Le stime preliminari di aprile 2012 sul commercio estero con i Paesi extraeuropei confermano il trend: la Svizzera (+12,4% a/a) è al terzo posto dopo Giappone e Opec nel novero dei mercati più dinamici.
Numeri che rappresentano meglio di un trattato di sociologia le difficoltà in cui versano tante famiglie italiane. Dietro al boom delle esportazioni in Svizzera, infatti, ci sono due fenomeni: da un lato l’esplosione dei “compro oro”, e dall’altro la crisi dei distretti orafi italiani, che a sua volta determina la rivendita – da parte delle banche italiane – dei lingotti agli istituti di credito elvetici da cui li avevano acquistati in precedenza. Se quest’ultimo aspetto è noto soltanto agli operatori del settore, il primo è sotto gli occhi di tutti, basta farsi un giro in città.
La scorsa settimana l’associazione consumerista Adoc ha pubblicato i risultati di un’indagine secondo cui, nell’ultimo anno, i negozi “compro oro” sono cresciuti del 15%, con un giro d’affari di 2 miliardi di euro. «L’Italia assieme alla Spagna è tra i principali player d’Europa per l’oro riciclato», dice a Linkiesta Andrea Zironi, presidente di Anopo (associazione nazionale operatori professionali oro), che continua: «Da parte nostra abbiamo quantificato un fatturato di 500mila euro l’anno a negozio, 14 miliardi di euro l’anno se si considera il settore nel suo insieme. Sono 23 anni che faccio questo mestiere», racconta ancora Zironi, «ho visto il settore crescere costantemente ma ora siamo in un momento di over capacità, basti pensare che in un anno i negozi sul territorio nazionale sono passati da 20 a 30mila». Un’impennata trainata più dalla disperazione di molti che dalle quotazioni del metallo giallo, destinata a durare ancora tre anni al massimo, un po’ per le nuove aperture un po’ perché, ammette Zironi, «i clienti stanno iniziando a raschiare il fondo del barile».
Affari letteralmente d’oro, sui quali la criminalità organizzata ha messo le mani da tempo. Per questo, lo scorso novembre, Aira (Associazione nazionale responsabili antiriciclaggio) e Anopo hanno organizzato un convegno per sensibilizzare le istituzioni, Bankitalia in primis, sull’urgenza di rendere obbligatoria l’iscrizione a un albo, oltre a regole più stringenti in termini di tracciabilità del denaro e antiriciclaggio. Un esempio? Nonostante il pagamento in contanti oltre i mille euro sia vietato a norma di legge, gli esercizi che pagano in nero, senza rilasciare lo scontrino sono la maggior parte. Altro esempio: soltanto i compro oro autorizzati da via Nazionale, in teoria, possono acquistare monete d’oro. Un altro paletto completamente disatteso. Guadagnando cifre che variano dal prezzo corretto di 3-4 euro al grammo e salgono fino a 8-10 euro, a seconda della purezza dei preziosi (18 o 24 carati).
La legge 7 del 2000 – che distingue la compravendita di oggetti in oro con e senza trasformazione, in quest’ultimo caso, in teoria, è necessaria un autorizzazione della Banca d’Italia – e in particolare il quarto comma, ha di fatto sancito un “liberi tutti”, escludendo, tra gli altri, dai requisiti di onorabilità «gli operatori che acquistano oro al fine di destinarlo alla propria lavorazione industriale o artigianale o di affidarlo, esclusivamente in conto lavorazione, ad un titolare del marchio di identificazione di cui al decreto legislativo 22 maggio 1999, n. 251».
Palazzo Koch, però, continua a tenere la testa sotto la sabbia. Due anni fa, esattamente il 28 maggio 2010 l’istituto guidato da Ignazio Visco ha fornito alcuni chiarimenti sull’interpretazione della norma, stabilendo che i compro oro non sono autorizzati a trattare oro fino, ad uso industriale o semilavorato. Ergo, basta mettersi d’accordo con un intermediario che fisicamente si reca in una fonderia per trasformare fedi, catenine e orecchini in lingotti – al prezzo di 50 cent a grammo – e il gioco è fatto. Tanto che, dei 28mila, i compro oro autorizzati da Bankitalia sono soltanto 346.
Le ultime statistiche curate dal Servizio studi di Intesa Sanpaolo e dal Club degli Orafi indicano una contrazione complessiva del comparto gioielleria e bigiotteria (quindi non soltanto oro) del 7,7% nei primi tre mesi 2012 rispetto allo stesso periodo del 2011, con una caduta maggiore (-16,1%) per il fatturato nazionale rispetto a quello estero (-1,4%), quest’ultimo riferito a febbraio e stabile sull’anno scorso. I dati Istat indicano invece una produzione industriale in calo del 6,4% (dopo il -8,7% del 2011).
Fonte: Servizio studi Intesa Sanpaolo
I distretti storici come Valenza Po, Arezzo e Vicenza, insomma, continuano ad annaspare. In realtà, come racconta il responsabile oro di una banca che opera in uno di questi distretti, i primi segnali di contrazione del settore risalgono al 2002, mentre la vera riduzione della domanda è arrivata nel 2009, e da lì la discesa è stata lenta e inesorabile.
Fonte: Servizio studi Intesa Sanpaolo
Di fronte a questo scenario le banche prendono provvedimenti. Nelle cassaforti degli istituti di credito, infatti, arrivano sia i lingotti trasformati dalle fonderie attraverso la filiera dei “compro oro”, sia i lingotti che gli orafi non riescono a trasformare in gioielli. Tuttavia, come detto, il mercato italiano non è in grado di assorbire tutto l’oro prodotto in Italia. E dunque le banche hanno due strade: o proporlo alla clientela come strumento di diversificazione dei propri investimenti, oppure venderlo agli istituti elvetici, sia per avere cash subito sia per conto delle raffinerie italiane, che grazie alle banche, sono in grado di fare economie di scala e riescono a ottenere un prezzo più elevato da parte delle controparti svizzere.
Per quanto riguarda i lingotti che i distretti orafi non riescono a trasformare in gioielli, invece, il meccanismo è regolato dal cosiddetto “prestito d’uso”. Soltanto poche banche in Italia, tra cui Banca Etruria, Intesa Sanpaolo e Unicredit, possiedono “fisicamente” l’oro. Le altre lo chiedono in prestito da controparti italiane o svizzere attraverso il cosiddetto “prestito d’uso”. In estrema sintesi funziona così: la banca proprietaria dei lingotti, dietro al pagamento di un interesse, concede l’oro a un’altra banca, la quale a sua volta – sempre ad un tasso che varia a seconda della durata del prestito – lo consegna all’orafo. Se però l’orafo non riesce a vendere anelli, orecchini e catenine, è costretto a restituire parte delle sue scorte di magazzino piuttosto che continuare a pagare gli interessi alle banche. Nel 2011 la riduzione media dei prestiti d’uso è stata del 10%, a fronte, come detto, di un calo del comparto del 20 per cento rispetto al 2010. A meno di non riuscire a vendere alla clientela o a reimmettere il metallo prezioso nella filiera produttiva, i lingotti prendono dunque la strada della Svizzera. Del doman non v’è certezza, soprattutto in un Paese in recessione. E gli istituti italiani preferiscono incassare subito.
Twitter: @antoniovanuzzo