NEW YORK – “Social objects”. È questo il principale strumento su cui scommette il team elettorale di Obama per coinvolgere i giovani e rivitalizzare il popolo del “Yes we can” rappresentando il presidente in carica come il candidato del popolo, contrapposto all’uomo dell’establishment Mitt Romney. Definiti in marketing come nodi attorno ai quali si sviluppa una conversazione sulle piattaforme digitali, sono per esempio “social objects” il grafico dell’andamento della disoccupazione postato dalla squadra di Obama sul Tumblr blog a inizio maggio, il filmato in cui il presidente spiega i passi in avanti sulle politiche ambientali, pubblicato su Facebook il 22 aprile, e la foto appiccicata su Tumblr il giorno della festa della mamma in cui Obama bambino è nelle braccia della madre Stanley Ann.
Sono “social objects” anche il collage di immagini animate che gioca con il doppio senso della parola “arms” (in inglese “braccia” ma anche “armi”) per prendere in giro i repubblicani alla Rick Santorum fissati con il diritto di possedere pistole, ed è un “social object” pure l’elenco di canzoni a cui i sostenitori del presidente possono contribuire su Spotify.com per creare la colonna sonora della campagna elettorale.
«Siamo costantemente inondati di informazioni e alcuni modi di proporle sono più efficaci di altri, i “social objects” sono esche per coinvolgere ex militanti delusi ed elettori indecisi; sono informazioni semplici da elaborare e veloci da condividere con i contatti», spiega a Linkiesta Andy Smith, esperto in attivismo di massa e coautore con la professoressa di Stanford Jennifer Aaker del libro: “The Dragonfly Effect: Quick, Effective, and Powerful Ways to Use Social Media to Drive Social Change”.
I “social objects” raggiungono milioni di elettori attraverso Facebook (il profilo di Obama ha ben 26 milioni e mezzo di amici sui 900 milioni di utenti mensili del social network di Mark Zuckerberg), Twitter (15 milioni e mezzo di persone seguono i suoi tweets) e vengono diffusi anche sulla piattaforma emergente di questa seconda campagna elettorale di Obama: Tumblr. Con il pulsante “reblog”, il sistema di blogging ideato dal venticinquenne David Karp permette alla comunità dei frequentatori della piattaforma di rilanciare infografiche, foto e commenti (anche più lunghi dei 140 caratteri consentiti da Twitter) nei social network che preferiscono.
L’Obama team 2012 dispone anche di strumenti di analisi del traffico sui social network che la task force elettorale di Obama poteva solo sognare. Questo permette all’entourage elettorale del presidente di capire quali sono le strategie più efficaci a seconda delle piattaforme. Buffe immagini animate Gif, per esempio, possono funzionare meglio sul Tumblr blog frequentato da ragazzi pronti a “ribloggare” questi contenuti leggeri per scherzare con gli amici, mentre un video della famiglia Obama sprofondata sul divano a leggere è più adatto per Facebook, dove il pubblico è ormai tendenzialmente più maturo. Insomma, programmi più sofisticati per l’analisi dei flussi di elettori sui vari social network permettono di affinare le tecniche di coinvolgimento.
Tutto vero. Ma per vincere le elezioni l’Obama team deve assicurarsi che dopo le chiacchiere e i cinguettii online, i reblog e i retweet la gente vada in effetti a votare. Per cui c’è tutto un filone di strategie per far sì che i militanti incontrino gli incerti faccia a faccia per convincerli. Tra queste tattiche spiccano i “tweetups”, incontri tra sottoscrittori di Twitter (militanti e elettori incerti) oppure tra attivisti determinati a mobilitare chi non usa abitualmente la Rete.
Molte cose sono cambiate rispetto al 2008, ma l’Obama team può contare sull’esperienza della ormai leggendaria “Obama online operation”, la squadra che quattro anni fa svolse un ruolo decisivo nella vittoria dell’allora semi-sconosciuto senatore dell’Illinois. In quel dream team c’era Chris Huges, allora ventiquattrenne e già cofondatore di Facebook, impegnato sul versante social media; Kate Albrigh Hanna, già regista della Cnn incaricata di sviluppare la sezione video; e Scott Goodstein, al timone di una strategia di coinvolgimento tramite i messaggini sms (molto meno popolari in Usa rispetto all’Italia).
La storia di quella travolgente campagna digitale in realtà era cominciata quattro anni prima, quando il democratico Howard Dean si era presentato alle primarie del suo partito. Era il 2004 e Dean puntò molto sul web. Non vinse, ma quell’esperienza preparò il terreno a Obama. Alla guida della digital operation del giovane senatore dell’Illinois nel 2008 arrivò Joe Rospars, il fondatore della Blue State Digital, un’agenzia specializzata in strategie d’uso dei nuovi media, collaboratore di Dean nel 2004. Il risultato di quell’esperienza lo conosciamo. Basti rinfrescare un dato: i video sul canale YouTube di Obama all’indomani della vittoria elettorale erano stati cliccati 68 milioni di volte.
«Thomas Jefferson usò i giornali per ottenere la presidenza, Franklin Delano Roosevelt utilizzò la radio per governare, John Fitzgerald Kennedy fu il primo presidente a capire davvero il mezzo televisivo, e Howard Dean comprese le potenzialità del web per rastrellare quattrini», ha spiegato sul New York Times il blogger e investment manager Ranjit Mathoda nel novembre 2008. «Obama ha intuito che puoi usare internet per costruire un brand politico fortissimo minimizzando costi, coinvolgendo la gente e avvalendosi del suo aiuto». Ciò che è cambiato rispetto al 2008, però, è la posizione di Obama. Prima era un giovane e ambizioso senatore. Adesso è un presidente al governo da quasi quattro anni che chiede la rielezione.
«Dopo un mandato è più difficile organizzare una campagna elettorale pirotecnica», sottolinea Smith, l’esperto in attivismo di massa e marketing. «La narrativa della campagna online di Obama, puntellata sui “social objects”, fino a questo momento è chiara: lo presenta ancora come l’outsider, il candidato del popolo. E forse sarà alla fine una strategia vincente, perchè lo sfidante, il repubblicano Romney è percepito da ampi strati della popolazione come un nababbo, bianco, per giunta fan di Wall Street. E un tizio il cui passatempo preferito è licenziare».