L’uscita della Grecia dall’eurozona non è più un tabù. Dopo le recenti dichiarazioni dei suoi colleghi di partito, favorevoli a una cacciata di Atene dall’euro, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha oggi ribadito che «in ogni caso, la Grecia sarà sempre un membro dell’Unione europea», rispondendo alle domande degli adolescenti di una scuola superiore in Germania, preoccupati da un collasso dell’euro. E negli ultimi giorni sono sempre più le indiscrezioni che vedono Atene fuori dall’euro entro fine anno, come ha scritto ieri Paul Krugman sul New York Times. Tuttavia, nonostante le discussioni sul futuro della Grecia siano sempre più vive, non esiste ancora la possibilità che l’incubo di una secessione ellenica diventi realtà. A tal punto che un funzionario della Commissione europea ammette: «Esistono diversi piani di contingenza».
La Grecia, attualmente, non può uscire dall’eurozona. Questo è un dato di fatto, perché il Trattato di Lisbona, che sta alla base del funzionamento dell’Unione europea e della zona euro, non contempla la secessione. L’articolo 50 disciplina infatti esclusivamente la possibile uscita dall’Europa, opzione che nessuno ha mai considerato per la Grecia e che non rientra in alcuno dei possibili piani di contingenza creati negli ultimi mesi dalle banche d’investimento. Per ora, quindi, Atene non può né uscire né essere cacciata.
Eppure, nonostante tutti i limiti che avrebbe questa opportunità, sono sempre di più le voci che vogliono la Grecia fuori dall’euro. L’ultimo in ordine di tempo è stato Ottmar Issing, ex capo economista della Banca centrale europea, che senza mezzi termini, ha spiegato che «se la Grecia non manterrà gli impegni presi, dovrà prendere in considerazione questa opportunità». E a ruota si è accodato anche Hans-Werner Sinn, uno dei maggiori economisti tedeschi, presidente del prestigioso istituto di ricerca economica IFO. «La Grecia dovrebbe uscire dall’euro, svalutare la propria moneta e poi ripensare a crescere. Per lei non c’è futuro con l’euro», ha attaccato Sinn.
Sull’onda di queste voci, i centri studi delle banche internazionali hanno già fatto i loro calcoli. Per J.P. Morgan la secessione della Grecia costerebbe circa 400 miliardi di euro all’Ue. Una cifra elevatissima, che comprende anche le conseguenze di un default sul debito che Atene ha contratto con il Fondo monetario internazionale (Fmi). «In realtà – spiegano gli analisti della banca americana – i costi saranno più elevati, in quanto l’economia sarebbe distrutta per circa un ventennio». Nel totale, quindi la cifra potrebbe essere «circa tre volte tanto», ovvero 1.200 miliardi di euro. Il tutto «tralasciando i costi sociali di un evento del genere».
Costi, quest’ultimi, calcolati invece dalla svizzera UBS, che in dicembre aveva messo nero su bianco le probabilità dei singoli eventi se avvenisse una secessione. Nel caso di un Paese debole come la Grecia, la probabilità di un default sovrano è del 100%, lo stesso valore di una massiva sequela di fallimenti societari e dell’inizio di una fuga di capitali verso l’estero. Merito della minor sicurezza della nuova valuta. Non a caso, il rischio di una corsa agli sportelli (bank run) è dato al 90%, mentre il collasso del commercio internazionale al 95 per cento. Più contenute, seppur di poco, le probabilità di iperinflazione, data all’80 per cento. Di contro, preoccupa il fatto che esiste, nelle stime di UBS, il 65% di possibilità che si possa arriva alla nascita di un governo autoritario o, peggio, a una guerra civile.
Più cautelativa è l’idea del Crédit Agricole. Per la banca francese un evento come l’uscita della Grecia dall’euro potrebbe costare circa 280 miliardi di euro. Merito della Banca centrale europea (Bce) e delle sue due operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Long-term refinancing operation, o Ltro), con le quali sono state aperte linee di credito per circa 1.030 miliardi di euro a favore delle banche europee. In tal modo, spiegano gli analisti, il sistema finanziario Ue sarebbe in grado di diluire le perdite derivanti dal collasso ellenico. A differenza di UBS, il Crédit Agricole non ritiene però che si possa arrivare a un blocco totale del commercio internazionale della Grecia. «Le società hanno già iniziato a prezzare il fatto che possa esserci una secessione», sottolineano gli analisti francesi.
Più aggressivo è invece il calcolo di Lombard Street Research (Lsr). Per la boutique finanziaria londinese i costi sono da dividere in tre fasi: shock, devaluation, consolidamento. Nella prima parte, quella più costosa dal punto di vista emozionale, l’impatto sarà di circa 400 miliardi di euro nell’eurozona. Il contagio a banche e società europee sarebbe inevitabile e «solo a un anno dalla secessione si potrebbe avere una stima di quanto si è perso». Probabile che sia necessario anche più tempo per capire al meglio gli effetti, come avvenuto con Lehman Brothers. Allo shock iniziale seguirebbe il ritorno alla nuova valuta, probabilmente la dracma, con un cambio agganciato al dollaro statunitense. Si avrebbe quindi la svalutazione, considerata da Lsr un evento «potenzialmente più distruttivo» dell’uscita stessa dall’eurozona. «I prezzi aumenteranno di colpo, l’inflazione potrebbe arrivare al 20% entro pochi mesi e la sofferenza della popolazione ellenica potrebbe essere ancora più pesante di quello che è già oggi», scrivono gli analisti di Lombard Street Research. Infine, il consolidamento. Dopo circa dieci anni con la nuova dracma, la Grecia potrebbe sganciarsi dal dollaro americano e ricominciare il percorso di rientro nell’eurozona. In questo caso, tuttavia, «bisognerà vedere se esisterà ancora l’euro nel modo in cui lo conosciamo adesso».
Chi invece non fa stime sono le tre principali agenzie di rating, cioè Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. L’incertezza sul futuro della Grecia è troppa e l’instabilità dell’eurozona non è da meno. Quindi, spiegano gli analisti delle tre società, non è possibile prezzare le conseguenze di un’uscita. Un analista di Moody’s, che ha chiesto l’anonimato, a Linkiesta afferma che «nessuno può sapere cosa accadrebbe se uscisse davvero. Come con il fallimento di Lehman Brothers, non ci sono certezze sugli effetti». Questo perché a livello internazionale la rottura di un’unione monetaria importante come l’eurozona è un evento che finora nessuno aveva mai considerato reale.
Da Bruxelles i silenzi dicono più delle dichiarazioni. Gli sguardi mesti dei funzionari della Commissione europea lasciano intendere che il peggio non è ancora finito e che la crisi europea non è che all’inizio. Ma da alcuni giorni, i politici europei stanno lentamente aprendo alla possibilità che, in un prossimo futuro, ci possa essere un’uscita di Atene dalla zona euro. L’ultimo in ordine di tempo è stato il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso. Con evidente riferimento alla Grecia, ha infatti detto che «chi in un club non rispetta le regole del club, dovrebbe uscire dal club». Parole pesanti, a cui hanno fatto seguito quelle del ministro tedesco delle Finanze (nonché favorito alla poltrona dell’Eurogruppo), Wolfgang Schäuble. «Le sofferenze della Grecia e del popolo greco non sono ancora finite. Ma è chiaro a tutti che ci sono impegni che devono essere rispettati», ha detto Schäuble. Analoga la visione di Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank, la banca centrale tedesca: «I greci hanno preso degli impegni, ora non possono tirarsi indietro. Se vogliono farlo, sanno cosa potrebbe attenderli».
Intanto, anche se non è possibile un’uscita dall’eurozona, ci sono già alcuni segnali che lasciano intendere che qualcosa si sta muovendo. Due fra i più grandi operatori finanziari del mondo stanno testando da mesi gli effetti di un collasso dell’euro. Da un lato CLS bank, la maggiore clearing house globale del mercato valutario. Dall’altro ICAP, il più importante interdealer broker. Sia CLS sia ICAP stanno testando valute fittizie per comprendere in che modo lo shock di una secessione della Grecia potrebbe influenzare i mercati finanziari. Iniziati nello scorso autunno, i primi risultati di questi test saranno diffusi nelle prossime settimane.
E se l’universo finanziario si muove, quello politico non sta fermo. A Bruxelles come a Washington si discute da mesi di cosa accadrebbe se un Paese dovesse lasciare l’eurozona. Durante il Consiglio europeo del 9 dicembre scorso, quando fu introdotto il Fiscal compact, cioè il nuovo Patto di stabilità europeo, il cancelliere tedesco Merkel aveva aperto a una riforma dei trattati, da completare entro la fine del 2012. Fra questi, anche il Trattato di Lisbona. Come spiegano fonti della Commissione Ue a Linkiesta, «una prima discussione su una maggiore flessibilità in uscita potrebbe essere fatta già nei vertici europei di giugno». Non si attendono decisioni almeno fino a settembre, ma intanto aumentano le indiscrezioni su diversi possibili piano di contingenza per gestire l’uscita dall’eurozona della Grecia.
«Il primo piano è stato preparato dopo il G20 di Cannes dello scorso novembre», ammette a Linkiesta il funzionario della Commissione Ue. Dopo cioè la minaccia di George Papandreou, all’epoca premier greco, che alla vigilia del summit disse che avrebbe indetto un referendum sulla partecipazione della Grecia nell’eurozona. «Non posso fornire dettagli, ma esistono diverse versioni di piani di contingenza, non sono altro che studi, analisi, proiezioni, come tutti fanno per una corretta gestione del rischio», afferma. Del resto, prima che la Grecia possa uscire legalmente e che ci sia un sistema bancario in grado di reggere l’urto con questo evento, devono ancora essere fatti tanti passaggi. Ma almeno, se mai succederà, l’Ue avrà avuto diversi mesi per prepararsi all’evento più drammatico della sua storia.