L’intervista al fondatore di Luxottica, Leonardo Del Vecchio, pubblicata alcuni giorni fa sul Corriere della Sera e di cui anche Linkiesta ha dato ampio risalto, ha suscitato profonde reazioni. Del Vecchio è un imprenditore di indubbio successo, ha creato una multinazionale leader nel suo settore e che continua a sorprendere con risultati eccellenti.
È dunque un imprenditore dell’economia reale che presenta un forte «j’accuse» nei confronti della finanza e dei banchieri.
Le sue parole emergono, con vigore, soprattutto in tempi, come quelli attuali, in cui per le piccole e medie imprese è sempre più forte la morsa del credit crunch. «Io me le ricordo bene le banche che facevano il loro mestiere» ha affermato Del Vecchio, ricordando l’esempio di Rondelli, banchiere del vecchio Credito Italiano, che nel 1981 sostenne coraggiosamente la Luxottica nell’acquisizione dell’americana Avant Garde: quanti banchieri e quali Istituti oggi avrebbero avuto quella lungimiranza? Rondelli – continua Del Vecchio – non ebbe esitazioni. Esaminò il progetto, si fece illustrare i programmi e diede il via libera. Ma oggi nelle banche chi fa più questo mestiere? Lo chieda alle imprese, a una piccola azienda che vuole crescere, l’aiuto che riceve dalle banche». L’intervista a Del Vecchio ha avuto il merito di portare al centro del dibattito una questione antica ma ancora vitale: il ruolo della finanza, il sostegno delle banche all’industria e allo sviluppo economico del Paese.
E in quello sviluppo un importante ruolo fu assunto dalla vecchia finanza laica: ciò porta direttamente ad una profonda riflessione sul suo ruolo storico, sulla capacità di tenere salda per decenni l’ossatura finanziaria del Paese, sulla lotta nel cercare di tenere lontano dalle grandi banche gli appetiti (famelici) della politica. E vengono in mente banchieri come Lucio Rondelli e soprattutto Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia. Proprio di queste due complesse e grandissime figure discutemmo nello scorso autunno in Facoltà di Economia a Parma con il professor Francesco Cesarini e con il giornalista e storico Sandro Gerbi e in occasione della presentazione del suo libro «Mattioli e Cuccia. Due banchieri del Novecento». Libro interessante, ricco di profondi spunti e di occasioni di riflessione anche per il presente.
Sandro Gerbi ha scritto: «A quasi quarant’anni dalla sua scomparsa, la sua personalità suscita tuttora un moto di stupefatta ammirazione. Ma se, per uno strano arcano, Mattioli potesse oggi riaprire gli occhi, vedrebbe un mondo per lui irriconoscibile. (…) E gli scandali di cui abbiamo assistito negli ultimi tempi sono stati tali da minare nel profondo la credibilità dell’intero sistema creditizio, del mercato finanziario e degli organi preposti al suo controllo. Uno smacco per un uomo come Mattioli, che poneva al centro della propria passione di vita e di lavoro il rinnovamento morale del Paese».
Oggi si ri-parla con insistenza di «crescita». Ma non ci sono alchimie o formule magiche per la crescita. E sarà difficile per il Governo Monti riuscire ad invertire la rotta, a disgregare «lacci e laccioli». È probabile, nonostante in giro rimanga ancora qualche ottimista, che neanche nel 2013 l’Italia ritorni a crescere. Ma «nell’agenda del Paese» vi è una certezza: la spirale del credit crunch deve essere spezzata. Nessuna strada per la crescita passa, infatti, attraverso le strozzature del credit crunch. Il credito deve arrivare all’economia, sostenere il tessuto industriale, le imprese dei nostri distretti. È questa la grande risorsa del Paese: il nostro sistema manifatturiero. L’Italia mantiene ancora, dietro la Germania, la seconda manifattura d’Europa ed una delle prime al mondo. Roubini nelle sue solide ma impietose analisi sul nostro Paese sottovaluta la forza della nostra industria. Oggi occorre fare in modo – in qualsiasi modo anche mettendo in campo la Cassa depositi e prestiti ecc. – che pur nella difficile crisi dei debiti sovrani non si esaurisca il credito all’economia italiana.
Nella relazione al bilancio della Comit del lontano 1966, Raffaele Mattioli sottolineava: «Liquidità non è liquido che stagna, ma liquido che scorre. È la capacità per gli imprenditori di trovare tempestivamente i fondi, fissi e circolanti che occorrono per le loro iniziative. A questa noi ci interessiamo, e di questa, purtroppo, avvertiamo la carenza. La liquidità intesa in senso «statico»… ha un carattere difensivo, protegge e garantisce lo status quo, rispecchia e assicura l’equilibrio dei rapporti di dare e avere. Ma la liquidità effettiva, quella che ha una funzione dinamica, che promuove e garantisce il corso dello sviluppo economico, che mantiene agile, sciolto e propulsivo l’organismo produttivo in tutte le sue articolazioni, la liquidità che soprattutto ci interessa». È stato ampiamente riconosciuto il ruolo fondamentale del sostegno della Comit alle imprese italiane, a quelle «del miracolo economico» del Paese, il fondamentale appoggio della banca alla crescita delle aziende e alla loro internazionalizzazione: «La Comit di Mattioli – come ricordò Guido Carli nel 1972 – ha continuato ad essere la banca degli industriali italiani».
Immensa e poliedrica la figura di Mattioli, non vi può essere confronto con gli odierni banchieri italiani ed internazionali: Mattioli era un fuori serie. Si pensi, a titolo di esempio, al Mattioli editore dei grandi classici italiani con la Ricciardi, al Mattioli sostenitore della casa editrice Einaudi, al Mattioli che con la grande cultura vuole «formare» nel dopoguerra la futura classe dirigente del Paese. Si consideri poi il Mattioli che salva amici ed intellettuali di origine ebraica dalle leggi razziali sotto il fascismo. Si consideri il suo rapporto con Sraffa e con Benedetto Croce. Si pensi al Mattioli che nella sua Comit è circondato da economisti, scrittori, poeti ecc.
Ma, pur nella quasi impossibilità di un confronto, è evidente quanto l’assenza di figure come Mattioli pesi nell’attuale panorama italiano. Quando Roubini parla dell’incertezza e dell’instabilità politica come grande tallone d’Achille italiano («political instability will remain Italy’s Achilles’ heel») è una precisa bocciatura del Sistema-Paese. La crisi italiana è anche lo specchio della debolezza della sua classe dirigente, non solo politica. Nelle «cabine di regia» non vi sono né strategie di lungo termine, né una visione «alta»del Paese. Forse non vi sono più «cabine di regia». E quelli che vengono definiti i «salotti buoni» hanno ben poco peso nello scacchiere internazionale. Il conflitto d’interessi, la ricerca del «particulare» di guicciardiniana memoria, sono i mali antichi del Paese. Nella classe dirigente attuale si avverte la mancanza di figure come Mattioli, di coloro che non siano solo propensi a massimizzare i benefici di breve. Mattioli poneva al centro del suo agire l’«interesse generale».
Mattioli oggi – come ieri – non sarebbe andato d’accordo con «certa politica» e soprattutto con quei principi machiavellici («Machiavellian corporate princes») di cui parla Rachel Sanderson sul Financial Times: avere a cuore il futuro del Paese vuol dire scardinare i «santuari» degli intrecci societari, delle partecipazioni incrociate, delle porte girevoli tra politica ed economia. Vuol dire tenere lontano la politica dalle banche. Vuol dire – come sottolineano gli imprenditori alla Del Vecchio – far fare alle banche il loro mestiere.
Ricordare Mattioli porta ovviamente a tante riflessioni. Ad esempio ad interrogarsi sulla tenuta del sistema banche-fondazioni che oggi presenta molte debolezze. Le banche avranno ancora bisogno di iniezioni di capitali (lo ricorda con minuziose e attente analisi Antonio Foglia nei suoi interventi sul Corriere): ha senso che le Fondazioni continuino a svenarsi per partecipare agli aumenti di capitale? Anche in considerazione che i ritorni, in termini di dividendi ed utili, che avranno dalle banche saranno bassissimi? Non è preferibile che le Fondazioni continuino nel processo di diversificazione (e di protezione) del loro patrimonio ed investano sul territorio, stimolando attraverso la sussidiarietà e gli investimenti culturali la crescita del territorio di riferimento?
E come riuscire (ed è questione antica) a far si che il risparmio privato – in un Paese come l’Italia che ha ancora alti tassi di risparmio e un imponente stock di ricchezza privata – converga non sulla rendita improduttiva ma arrivi virtuosamente al sostegno alle imprese? In modo da sostenere e stimolare ancora di più l’iniziativa economica e smuovere le «tristi oziose acque» di cui parlava Mattioli citando Parini.
Rimangono tutte questioni di portata strategica, di vitale importanza, ma ancora irrisolte. Tuttavia, riprendendo il magistero di Mattioli: «Non possiamo ‘rassegnarci’ agli eventi, per avversi che sembrino, né lasciarci da essi passivamente ‘condizionare, ma dobbiamo capire e agire, o reagire, senza i pavidi tremori delle teste deboli e dei nervi fragili».