I Paesi emergenti sono divisi, è il momento di far tornare a casa le aziende

I Paesi emergenti sono divisi, è il momento di far tornare a casa le aziende

«La Cina ha bisogno di riforme. Se non porteremo avanti riforme politiche strutturali, non costruiremo mai vere riforme economiche, e quanto abbiamo guadagnato finora in questo campo potrebbe andare perduto». Così parlò Wen Jiabao, nell’ultimo discorso da premier in carica, davanti all’Assemblea Nazionale del Popolo. L’appello del primo ministro di Pechino è arrivato, non a caso, dopo la pubblicazione dei dati commerciali del mese di febbraio, in cui la Cina ha ammesso il deficit maggiore dal 1989, 31,5 miliardi di dollari.

Malgrado l’ulteriore svalutazione dello yuan rispetto alla moneta americana, nei primi due mesi dell’anno l’export ha segnato una contrazione del 6,9 per cento, mentre l’import è aumentato nello stesso periodo del 7,7 per cento. La crisi dei debiti europei ha rallentato la domanda dal Vecchio Continente e al tempo stesso sono cresciuti gli acquisti di materie prime, come petrolio, rame e ferro, necessari per fare fronte agli investimenti interni.

I dati diffusi dal Dragone non sono stati gli unici segnali del rallentamento dei Brics. Se la Cina ha tagliato le prospettive di crescita per il 2012 al 7,5 per cento, il Pil brasiliano nel 2011 è aumentato del 2,7 per cento, contro il 7,5 dell’anno precedente, e l’espansione dell’economia indiana negli ultimi mesi dello scorso anno si è fermata – per così dire – al 6,1 per cento, la cifra più bassa dell’ultimo triennio. La Russia prevede invece per il 2012 un balzo in avanti del 3,7 per cento, a fronte di una crescita del 4,3 per cento nel 2010. Si tratta di numeri ragguardevoli, se paragonati alla stagnazione dell’Europa e alla crisi del debito che coinvolge l’intero Occidente, ma lo slowdown è la conseguenza di problemi strutturali, come l’eccessiva dipendenza dall’estero, un dato confermato da una recente ricerca della società di consulenza Grant Thornton.

Le riduzioni dei consumi in Europa e negli Stati Uniti, così come le oscillazioni dei prezzi dell’energia, hanno provocato effetti immediati in sistemi economici in cui il mercato interno è ancora limitato. Bhanu Baweja, del colosso bancario Ubs, precisa: «Il rallentamento dei Paesi emergenti non rappresenta nulla di nuovo, è iniziato lo scorso giugno, in gran parte a causa delle politiche restrittive delle stesse autorità, mirate ad impedire il surriscaldamento dell’economia. Adesso potrebbe essere il sistema a rallentare in maniera autonoma, ma si tratta comunque di un rimbalzo piuttosto modesto».

Lo scorso 29 marzo Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica si sono incontrati a Nuova Delhi per il loro quarto vertice annuale, ma il summit non ha partorito una vera e propria piattaforma condivisa. La stessa proposta di creare la prima istituzione comune ai cinque Stati, una banca internazionale per il finanziamento di progetti infrastrutturali nei Paesi in via di sviluppo, in alternativa alla World Bank e all’Asian Development Bank, non ha mascherato le divisioni all’interno del blocco. I differenti sistemi di governo, le reciproche accuse di protezionismo, il timore, da parte degli altri quattro membri, di un’egemonia cinese, hanno tolto sostanza all’acronimo creato undici anni fa da un’economista di Goldman Sachs, Jim O’Neill, facendo del vertice di Nuova Delhi più una photo- opportunity che il nucleo di un’alleanza geo-politica.

Un’altra conferma della mancanza di compattezza dei Brics è stata quando i 25 membri del board della Banca Mondiale hanno indicato come futuro presidente il candidato scelto da Barack Obama, il medico americano, di chiare origini coreane, Jim Yong Kim. Mentre Cina e India, in ultima istanza, hanno sostenuto la scelta di Washington, Brasile e Sudafrica hanno votato per la candidatura alternativa, quella del ministro delle Finanze della Nigeria, Ngozi Okonjo-Iweala.

Anche se lo stesso O’Neill prevede che il Pil dei cinque Paesi – oggi intorno ai 13.000 miliardi di dollari – raddoppierà nel prossimo decennio, superando la somma dell’economia europea e di quella americana, i dati recenti segnano una riscossa delle grandi potenze del secondo Dopoguerra. L’ultimo superindice dell’Ocse è particolarmente positivo per Giappone (in crescita da 100,8 a 101,1) e Stati Uniti (da 101 a 101,3), che – scrivono gli esperti di Château de la Muette – mostrano «forti segnali di ripresa dell’attività economica».

A febbraio l’economia Usa ha creato 227.000 posti di lavoro. Il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, prevede per il 2012 un aumento del Pil vicino o superiore al 2,25 per cento registrato negli ultimi mesi del 2011. Quanto al Giappone, gli esperti sono concordi nell’attendere un’accelerazione più rapida rispetto a quanto pronosticato mesi fa, spinta dalla ricostruzione della parte nord-orientale del Paese, devastata dal terremoto dell’11 marzo 2011.

Il refrain degli ultimi anni ha insistito sull’inevitabile decadenza degli Usa e sull’ascesa senza limiti dei Brics. Ma gli anti-declinisti hanno ripreso vigore a Washington e alcuni di loro, come Robert Kagan, parlano esplicitamente di un nuovo secolo americano.
Non si tratta di convinzioni diffuse solo in ambito neo-con. Barack Obama ha fatto dell’insourcing, del ritorno in patria delle imprese che avevano delocalizzato, un punto fondante del programma per la rielezione. «It’s halftime in America, and our second half is about to begin», recitava la voce di Clint Eastwood nello spot della Chrysler per il Superbowl, un messaggio che ha fatto storcere il naso a non pochi repubblicani. Così, dopo il salvataggio dell’industria dell’auto, è giunto il momento di riportare a casa chi aveva trasferito progetti e fabbriche in Oriente.

La campagna obamiana è partita dal Wisconsin, con una visita alla Master Lock, un’azienda produttrice di serrature, che ha già compiuto il tragitto di ritorno: «Sempre più compagnie, seguendo l’esempio della Master Lock, stanno rientrando negli Stati Uniti, perché conviene scommettere sull’America». Un discorso ripetuto a Petersberg durante la visita a uno stabilimento della Rolls-Royce, in cui si producono motori per l’aeronautica, fiore all’occhiello della tecnologia a stelle e strisce.

In Virginia l’inquilino della Casa Bianca ha presentato un nuovo piano per incoraggiare l’insourcing. L’idea è quella di creare un network di quindici istituti per favorire l’innovazione nel settore manifatturiero, con il compito di aiutare le aziende a essere più competitive. Al progetto dovrebbe essere destinato un miliardo di dollari di investimenti. Obama punta sulla leva fiscale per convincere gli imprenditori a fare un’inversione di rotta. Parlando di fronte allo stabilimento della Boeing di Everett, a nord di Seattle, era stato perentorio: «Nessuna azienda dovrebbe ottenere un taglio delle tasse se delocalizza. Al contrario, è giusto premiare gli imprenditori che decidono di tornare a casa».

La sfida a Pechino è partita: «I costi di produzione e di trasporto in Cina sono aumentati, e al tempo stesso è cresciuta la produttività americana». I toni anti-cinesi sono destinati a salire nel corso della campagna elettorale, anche perché i repubblicani accusano il presidente di lassismo di fronte alla minaccia del Dragone. Obama non si scompone e risponde con il tradizionale messaggio di ottimismo a stelle e strisce: «In America, we don’t give up, we get up».

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