Il film “Hunger” racconta una doppia storia di intransigenza. La prima è quella del governo inglese – come si può ascoltare dall’audio originale dei discorsi dell’allora premier conservatore Margaret Thatcher al parlamento, quelli che il regista Steve McQueen ha inserito nel film – riguardo la pretesa dei detenuti dell’Ira di essere trattati in carcere con lo status di prigionieri politici. Bobby Sands, attivista nordirlandese, muore il 5 maggio del 1981. Alla Camera dei Comuni Margaret Thatcher dichiara: «Bobby Sands era un criminale. Ha scelto di togliersi la vita. Una scelta che l’organizzazione alla quale apparteneva non ha concesso a molte delle sue vittime».
La seconda è quella della severa protesta dei militanti irlandesi. Le condizioni (proibitive) del carcere duro la radicalizzeranno fino allo sciopero della fame, e fino alla morte di Bobby Sands e altri nove attivisti nella prigione di Long Kesh nel 1981. L’isolamento radicale dei detenuti influisce anche nelle modalità di protesta. Lo rivela molto bene “Hunger” nella scena del dialogo tra il prete cattolico e Sands, che è diventato un leader nel carcere, mentre la sua comunità non ha alcun contatto con l’esterno (se non sporadico), tanto che l’ala politica di Belfast non ha controllo sullo sciopero, che resta una delle tante decisioni maturate esclusivamente in carcere.
Trent’anni dopo, la vicenda non è ancora chiusa e continua a essere una storia di intransigenze. Ma in mezzo a queste posizioni dure, potrebbe esserci una falla. Secondo Richard O’Rawe, ex militante Ira ed ex responsabile dei comunicati inviati all’interno della prigione di Long Kesh, autore di due controversi libri “Blanketmen” (2005) e “Afterlives” (2010), esiste un documento ufficiale che fornisce le prove sull’esistenza di un accordo segreto autorizzato da Margaret Thatcher all’inizio del luglio 1981 che avrebbe potuto salvare la vita agli ultimi sei prigionieri in sciopero: Joe McDonnell, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kieran Doherty, Thomas McElwee e Michael Devine, che invece morirono in rapida successione tra luglio e agosto.
La tragica estate degli Hunger Strike è il punto di non ritorno della lotta armata nordirlandese e segna la nuova stagione dell’azione politica dei partiti di riferimento. Linkiesta ha incontrato Riccardo Michelucci, autore de “Storia del conflitto anglo-irlandese” (Odoya edizioni) per capirne di più.
La tesi di O’Rawe chiama in causa direttamente Gerry Adams, anzi lo accusa.
Sì, Adams già all’epoca era leader del partito Sinn Fein. La tesi di O’Rawe è che Adams rifiutò di comunicare ai detenuti rimasti ancora in vita durante lo sciopero e alle rispettive famiglie che il governo aveva accettato quattro delle cinque richieste per cui Sands e i suoi avevano iniziato la protesta (non indossare l’uniforme carceraria, non svolgere lavoro, la possibilità di organizzare attività ricreative, ricevere una visita, una lettera e un pacco a settimana, poter frequentare gli altri detenuti). La motivazione sarebbe stata di opportunismo: ottenere il massimo profitto politico e quindi elettorale sull’onda emotiva della protesta. Ricordiamo che mentre Sands è in carcere a scioperare viene eletto al parlamento inglese con 30mila voti, più della Thatcher. Per il governo invece si trattava di offrire un compromesso per fermare l’imbarazzo delle morti dello sciopero, tra cui quella di Bobby Sands.
Quando è saltato fuori il documento ufficiale?
A scovarlo negli archivi britannici è stato Liam Clarke del ‘Sunday Times’, uno dei veterani del giornalismo irlandese, appellandosi alla nuova legge sulla libertà d’informazione e la trasparenza sugli atti dello Stato. O’Rawe prima solleva la questione nel libro “Blanketmen” poi pubblica il documento nel 2010 in “Afterlives”. Ci sono anche testimonianze a supporto del documento ufficiale, come quelle degli ex hunger strike Antohny McIntyre e Gerard Hodgins. “Afterlives” è diventato in Irlanda un bestseller che fa ancora discutere tanto che il mese scorso l’Irish republican socialist party ha portato a termine una inchiesta dando ragione a O’Rawe e ne ha presentato i risultati in una assemblea pubblica. Quello che è certo è che la leadership repubblicana non ha accettato il confronto con O’Rawe che negli anni è stato ostracizzato, considerato una sorta di paria, anche con minacce e scritte sotto casa.
Nonostante questo O’Rawe ha avuto un sostegno importante.
Con lui si è schierato Ed Moloney, il più noto giornalista politico irlandese, autore della “Storia segreta dell’Ira” (Dalai). Nella prefazione ad “Afterlives” Moloney afferma che se l’offerta britannica non fosse stata rifiutata probabilmente il processo di pace non sarebbe partito e che a fronte di quel documento sei uomini si sono lasciati morire senza sapere che avrebbero potuto continuare a vivere. Secondo Moloney il Sin Fein aveva già deciso di scendere in politica negli anni 80 ma noi non sappiamo se gli hunger strike avrebbero condiviso quella scelta politica e non armata.
Qualcuno dei familiari degli hunger strike ha mai contestato il retroscena che viene fuori dal documento?
Lo ha fatto Louise Devine, la figlia di Michael Devine, l’ultimo a morire. Nel rilasciare una intervista al quotidiano “Sunday World” è stata molto chiara: ”Se papà avesse saputo di quella proposta, avrebbe terminato il suo sciopero. Era un uomo giovane con due figli che adorava e meno di due anni ancora da scontare in prigione. Aveva tutte le ragioni per continuare a vivere. Invece ha trascorso sessanta giorni d’agonia ed è morto per niente, perché gli inglesi erano già disposti a soddisfare quasi tutte le richieste dei prigionieri.
Perchè il silenzio dei giornali italiani verso questo retroscena e sulle ceneri del conflitto in generale?
Dell’Irlanda non interessa più nulla, salvo omaggi a Seamus Heaney e paginoni per Bono. Già quando il conflitto era caldo la copertura era carente, perché spesso le fonti erano solo inglesi. Molti colleghi non andavano neanche a Belfast. Adesso poi viene considerato tutto finito e gli scenari internazionali di guerra sono ben altri. Resiste la lettura fuorviante della guerra di religione tra cattolici e inglesi. Il cinema però ha sempre raccontato per bene la storia nord-irlandese. “Hunger” non è proprio un film che riepiloga tutta la questione ma è comunque un gran film. Ce ne sono anche altri, i più celebri sono “Il nome del padre” con Daniel Day Lewis, più romanzato rispetto al film di McQueen ma che non modifica la realtà dei fatti della drammatica storia dei Quattro di Guildford e “Una scelta d’amore” con Helen Mirren, che racconta l’impotenza delle madri degli hunger strike.