Il governo tecnico si fa un po’ meno rigoroso. Va bene l’austerità e l’emergenza finanziaria, ma i ministri di Mario Monti non sembrano voler dimenticare i più deboli. Il governo delle «scelte impopolari» – così lo aveva presentato il presidente del Consiglio in una delle sue prime uscite pubbliche – cambia registro. E ammette, forse per la prima volta, i rischi cui alcune riforme volute da Palazzo Chigi hanno esposto le fasce più in difficoltà del Paese.
A parlare sono in due. Nel primo pomeriggio è il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera a lanciare l’allarme intervenendo all’assemblea di Rete Imprese Italia. «Il disagio sociale e diffuso legato alla mancanza del lavoro in Italia è più ampio di quello che le statistiche dicono – il suo appello – Non sono soltanto a rischio i consumi e gli investimenti, ma anche la tenuta economica e sociale del Paese». Poco dopo è la collega del Welfare Elsa Fornero ad ammettere i propri errori. La riforma delle pensioni approvata dal governo «è stata molto discussa – le sue parole in occasione della “Giornata nazionale della Previdenza” – anche nei problemi che ha creato a persone e famiglie. E sono problemi dei quali il governo è consapevole».
Due uscite a stretto giro. Non casuali. Gli austeri ministri del governo tecnico svelano la propria “umanità”. Una strategia comunicativa studiata a Palazzo Chigi – racconta più di qualcuno – per riavvicinarsi al Paese e arginare il crollo dei consensi. Ma anche per provare a ricucire, almeno in parte, i rapporti con il Parlamento. E riaprire un dialogo con i leader di partito, partendo dalla consapevolezza che dopo le ultime elezioni amministrative il raggio di azione dell’esecutivo sarà ancora più limitato.
«Per quanto riguarda il ministro Fornero – racconta al telefono un esponente del governo – il discorso è particolare». L’autoaccusa sulla rigidità della riforma previdenziale non solo non sarebbe casuale. Sarebbe stata addirittura suggerita dall’alto. In ballo c’è la riforma del mercato del lavoro, in queste ore all’attenzione della relativa commissione al Senato. Oggi sono stati depositati più di 40 emendamenti. Sedici portano la firma dei due relatori, Tiziano Treu e Maurizio Castro, altri 27 sono del governo. Modifiche spesso incisive. «Un enorme passo indietro – continua il ministro che preferisce non essere citato – La nostra riforma è stata pesantemente modificata». Per ottenere l’approvazione delle Camere, il governo è stato costretto a scendere a patti con i partiti. E le ultime affermazioni del ministro Fornero – due giorni fa davanti all’assemblea delle Confcooperative aveva fatto un’altra ammissione di responsabilità sui rischi di sommerso derivanti dalle nuove norme sul lavoro – hanno proprio questo obiettivo. «Le è stato suggerito di mostrarsi più aperta al dialogo – continua il collega di governo – meno rigorosa. Altrimenti rischiava di far saltare la riforma».
Alla fine la riforma del Lavoro si farà, ma con un compromesso al ribasso. Il governo aveva carta bianca. «Potevamo intervenire accontentando i mercati finanziari oppure venendo incontro alle parti sociali. E invece ci siamo accordati per una “riformina” che sembra scontentare tutti». A pagarne le conseguenze sarà lo stesso esecutivo, in termini di autorevolezza. «Nessuno – prosegue il ministro – può dimenticare l’aut aut di Elsa Fornero. Solo qualche settimana fa il ministro annunciava: “se il Parlamento non vota questa riforma il governo va a casa”. E invece…».
Ministro Fornero a parte, «è chiaro che dietro alle esternazioni di questo pomeriggio c’è una precisa strategia comunicativa» riconosce un parlamentare di primo piano del Pdl. Riecco spuntare la polemica sulla responsabilità dei suicidi legati alla crisi. «Le uscite dei due ministri servono al governo per fare ammenda rispetto all’algida contabilità dei morti del presidente del Consiglio Monti. Che prima si è lanciato in un antipatico paragone con la Grecia, poi ha accusato i precedenti governi». Insomma, l’impressione è che le ultime esternazioni a favore delle fasce sociali più deboli siano una correzione di rotta di una strategia comunicativa – cui il governo Monti è sempre stato molto attento – ultimamente fallimentare. Un modo per riavvicinarsi al Paese, l’estremo tentativo per invertire la tendenza di un crollo di popolarità impressionante. Una perdita di consensi che ormai non riguarda più soltanto gli elettori del Pdl.
Spogliare i ministri di Monti di quell’aura di freddo tecnicismo ha anche l’obiettivo di riaprire un confronto con il Parlamento. La legislatura proseguirà fino alla sua naturale scadenza, questo ormai è certo. Le fronde interne ai partiti della maggioranza sembrano troppo deboli per far cadere anzitempo il governo (senza contare dell’impegno preso in prima persona da Silvio Berlusconi per garantire l’esistenza dell’esecutivo fino al 2013). Lo stesso Monti poche ore fa nel suo messaggio a Giorgio Napolitano in occasione del sesto anniversario della sua elezione al Quirinale ha confermato l’intenzione di impegnarsi «con determinazione nella realizzazione del mandato che Lei ci ha affidato». Nessuna voglia di gettare la spugna.
Eppure è chiaro anche a Palazzo Chigi che le recenti elezioni amministrative restringeranno ancora di più il campo di azione dell’esecutivo. Costretto a fare i conti sempre più spesso con veti e paletti dei partiti, in cerca di rilegittimazione di fronte al proprio elettorato. Una difficoltà che rischia di aggiungersi a quella che, da più parti alla Camera, ormai considerano come «un’assenza di strategia» del governo. «I ministri li vedo imballati – racconta un deputato – Dove sono finite tutte le riforme? Forse si erano illusi dell’effetto di provvedimenti più annunciati che reali». Le critiche sono sempre le stesse. C’è chi accusa il governo per l’introduzione dell’Imu, chi di semplificazioni «ridicole» e chi di liberalizzazioni «modeste». Per non parlare dello spread. Rimasto a livelli pressoché uguali dall’ultimo governo Berlusconi. «Ma i professori non erano stati chiamati proprio per questo?».