CineteatroraIl naufragare dolce nel teatro delle Operette Morali

Il naufragare dolce nel teatro delle Operette Morali

Più volte le letterature trascolorano perdendo quel ruolo di richiamo e memoria alta. Quando il teatro sceglie di restituire loro un secondo atto, non si tratta più di terre disabitate, ma di assemblee in cui si torna a discutere sui rapporti dell’uomo con la storia, l’origine e il tempo sfasato tra la mediocrità dei troppi e l’eccezione di alcuni.

Questa la premessa alla ricerca intrapresa da tempo dal regista napoletano Mario Martone intorno alle origini della responsabilità civile e artistica della poetica nazionale: già tra i patrioti risorgimentali del film Noi credevamo si respirava la spinta enfatica al racconto impregnato di valori e contraddizioni. Ora, ponendo l’accento su rovesciamenti di satira e scambi arguti, la forma teatrale insegue dissertazioni filosofiche e considerazioni sulle nature umane nel solco delle Operette morali di Giacomo Leopardi. L’occasione di una frammentazione drammaturgica e registica – premio Ubu 2011 per la regia e premio La Ginestra 2011 – che s’infiltra abilmente nell’oggi senza tradimenti, ma per visioni sovrapposte e simbolismi rafforzati dalle scene di Mimmo Paladino.

Il palcoscenico si presenta prima sgombro e occupato soltanto da una sedia-trono strappata all’alta società, tre scalini degradano in un tappeto di terriccio su cui sono abbandonati oggetti simili a macerie di quel che resta della lotta contro le illusioni: la testa mozzata di una statua neoclassica, una tanica arrugginita, una ruota di bicicletta, un alligatore e una sfera di cristallo posata e illuminata singolarmente a margine in proscenio. Da quella sfera si dipartono voci e corpi in alternanza serrata tra i ventiquattro componimenti cui il poeta di Recanati, tra il 1824 e il 1832, affida l’esplorazione tragica dei vizi a un’apparente commedia che muove al riso e fa della ragione l’unica e solitaria versione di salvezza per l’uomo afflitto dalla propria nascita funesta.

È Giove (Paolo Graziosi) a condurre il viaggio e unire i discorsi: con la Storia del genere umano introduce alle prime differenze tra giorno e luce, all’ingresso del mare per delineare i confini e al desiderio degli uomini di ricevere quella verità che li metterà l’uno contro l’altro in miseria insanabile. Dalla stessa miseria deriva il peso della Terra sulle spalle di Atlante (Renato Carpentieri), che tenta di risvegliare il mondo accanto a Ercole (Giovanni Ludeno), finché saranno Terra (Barbara Valmorin) e Luna (Franca Penone) a sopraggiungere al buio, indossando sfere illuminate di carta e ricordando che il male è conforme a entrambe.

Non si tratta di abbracciare un pessimismo leopardiano da sussidiario, ma piuttosto di attraversarlo, scomporlo e ricomporlo in quadri viventi sulla vanagloria, la caducità e il destino impietoso. Una partitura scenica che apre a delle vere e proprie comparse rarefatte solo nell’atmosfera e nei suoni arcani, ma non nella vitalità di una lingua che vuole essere moderna e contraria a qualsiasi dichiarazione positivista o credenza dell’uomo che si ritiene illustre in un secolo incapace di concedere spazio a chi illustre lo è davvero.

Il tempo si scioglie nella sagoma di argilla che Prometeo (Renato Carpentieri) regge fiero pur scontrandosi con le stirpi umane più astruse. Resta il silenzio nudo ammesso più tardi nel Cantico del gallo silvestre (Paolo Musio), calcato nella recitazione fino a incidersi nello spettatore e a trascinarlo nel serraglio, quell’ideale anfiteatro concepito da Martone attorno a personaggi che fanno capolino da ogni dove. Dall’alto della platea, come dagli angoli più riposti, i loro passi sono rabbie, disillusioni e solitudini della storia o della sua metafora.

E incalza sempre un dire che nel dialogo, forse tra i più noti, della Natura – realizzata da Paladino come monumentale totem dorato in cui siede Barbara Valmorin – e di un islandese (Marco Cavicchioli), si rammenta che soltanto un terzo degli uomini è destinato al fiorire e tutto il resto a scadere. Un’ossessione fraterna all’opposizione di vita e morte, con le mummie dell’anatomista Federico Ruysch (Totò Onnis) disposte in una gabbia da campo di prigionia, tra sagome di sculture rannicchiate nei loculi e attori impolverati. O il più toccante dialogo tra Plotino (Renato Carpentieri) e Porfirio (Barbara Valmorin) sull’innaturalità del suicidio e l’offerta dell’amico come rimedio alla corruzione dello stato naturale.

Ogni ritaglio dell’opera adattata e rispettata dalla dramaturg Ippolita di Majo a fianco della regia, prelude a un viaggio ideale nella mente di Leopardi come del poeta Orazio (Roberto De Francesco), a una cornice della sua biblioteca riproposta come sedia e tavolo permanenti là dove prendono posto le pene d’amore di Torquato Tasso, gli spasimi sul futuro del venditore d’almanacchi, ma soprattutto la navigazione perenne di Cristoforo Colombo. Una vela scende dal graticcio e si annoda trasversalmente al terreno rendendo chiaro il ripescaggio dolente e collettivo cui siamo costretti dalla nascita, pur nella coscienza di avere davanti agli occhi beni di cui, in fondo, non ci curiamo affatto.

Operette morali

di Giacomo Leopardi
adattamento e regia di Mario Martone
scene Mimmo Paladino
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suoni Hubert Westkemper
dramaturg Ippolita di Majo
aiuto regia Paola Rota
scenografo collaboratore Nicolas Bovey
la musica per il Coro di morti nello studio di Federico Ruysch
è di Giorgio Battistelli (Casa Ricordi – Milano)
esecuzione Coro del Teatro di San Carlo diretto da Salvatore Caputo
con (in ordine alfabetico):
Renato Carpentieri, Marco Cavicchioli, Roberto De Francesco, Paolo Graziosi, Giovanni Ludeno, Paolo Musio, Totò Onnis, Franca Penone, Barbara Valmorin

FONDAZIONE DEL TEATRO STABILE DI TORINO

Milano Teatro Franco Parenti 8-13 maggio
Bologna Teatri di Vita (Sala Pasolini) 15-16 maggio