Il peruviano che ha fatto tremare Esselunga

Il peruviano che ha fatto tremare Esselunga

Pioltello (Milano) – Luis Seclen è nato a Lima. Da giovane ha partecipato alle manifestazioni contro il regime militare, oggi è quello che si definirebbe un immigrato integrato. Ottima padronanza della lingua, stesso lavoro da anni, figli all’università. Otto mesi fa ha messo tutto a rischio, diventando il leader del primo sciopero multiculturale dell’Italia in crisi. Una lunga vicenda che lo ha portato a scontrarsi con uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia: Bernardo Caprotti, il padrone di Esselunga.

Seclen ci spiega come ha guidato lo sciopero dei migranti al Nord. Protagonisti duecento lavoratori (latinoamericani, africani, pakistani) occupati nelle cooperative che gestiscono in subappalto i magazzini Esselunga di Pioltello, a due passi da Milano. Per mesi hanno impedito ai camion di uscire regolarmente dai cancelli. Hanno costretto la controparte a trattare, nonostante venticinque licenziamenti punitivi, la pressione della polizia, il rischio di rimanere senza lavoro.
 
«Non lo abbiamo fatto per avere più soldi, ma per la nostra dignità», racconta il lavoratore peruviano a Linkiesta. «Con 1.200-1.400 al mese non stavamo malissimo». La protesta è nata quando i capireparto hanno aggredito un lavoratore con toni razzisti. Un colpo alla testa e una frase che fa male più della violenza: «Così capisci meglio l’italiano». Il primo pensiero è la denuncia ai carabinieri. Il secondo è invece: «Così perdo il lavoro, meglio non fare niente». «Quella frase mi ha colpito», spiega Seclen. Anche se l’aggressione non lo riguarda in prima persona, decide di accusare comunque gli aggressori. Lo chiamano in ufficio, contestandogli ritardi e punendolo con una settimana di sospensione. «Domani non lavori, non c’è bisogno di te – gli dicono. – Come si dice in Italia, avrei dovuto pensare agli affari miei», riflette amaramente.

A Pioltello c’è la sede principale di Esselunga, il supermercato importato nel 1957 da una società Usa di Nelson Rockfeller. Il primo punto vendita italiano ispirato dal modello americano. Oggi circa 250 uomini – provenienti da ogni angolo del mondo – trasportano i colli dai camion ai magazzini (drogheria, salumeria, scatolame). L’estrema precarietà non è dettata dalla crisi: la maggior parte di loro lavora lì da 8 anni.

Il 7 ottobre 2011 è il giorno del primo sciopero. Una vertenza contro il sistema dell’esternalizzazione alle cooperative. «Spesso si lavora a chiamata, al limite del caporalato», denunciano i sindacalisti. «Carichiamo fino a 3mila chili al giorno quando la legge sanitaria ne prevede al massimo la metà. I capireparto ti controllano e ti sollecitano. E se non stai ai loro ritmi, il giorno dopo non ti chiamano». Sembrano le testimonianze che vengono dalle campagne del Sud, siamo invece nel cuore del terziario italiano. Ma scatole e barattoli non arrivano da soli sugli scaffali. Come a Nardò, Rosarno, Castel Volturno – i paesi della raccolta del pomodoro e delle arance – sono i lavoratori stranieri a guidare la protesta.

Dopo la vicenda dell’aggressione, i lavoratori – prima sospettosi e in competizione tra loro – decidono di usare la domenica per riunirsi. Un africano, un pakistano, un filippino e un sudamericano, i più anziani del magazzino di drogheria, diventano i leader. Iniziano i richiami, arriva una strana decurtazione in busta paga (“Contibuto AVF, nessun commercialista è riuscito a spiegarci cos’era”). Ma la mobilitazione prosegue.

«Abbiamo fatto tremare l’Esselunga. Caprotti, più che odiare i comunisti odia i sindacalisti. Siamo stati chiamati al telefono, ci hanno convocato». Seclen prosegue il suo racconto. «Da domani non vogliamo vedere i capireparto violenti, abbiamo detto. Ok, se ne andranno, ma che offrite voi?, ci hanno risposto. Che possiamo offrire, se già lavoriamo come schiavi?».

«E allora abbiamo deciso lo sciopero. Ci siamo resi conto che eravamo inginocchiati. Alzate la testa e guardateli in faccia, ho detto in assemblea. Non immaginate la rabbia e la collera che è uscita dal cuore di questi ragazzi. Abbiamo deciso: sciopero. Abbiamo fermato Esselunga. In Perù ho partecipato a diverse manifestazioni. Ma qui ho visto una festa popolare. Caprotti è sceso dal decimo piano a vedere cosa stava succedendo. Qualcuno gli ha fatto vedere il nostro volantino. Voglio vedere fuori tutti i dodici delegati, ha detto. Conoscendolo, sapevamo che non avremmo più messo piede nel magazzino. Ma i cancelli erano tutti chiusi, i suoi camion non uscivano, nonostante oltre cento poliziotti a proteggere gli interessi dell’azienda. Abbiamo tenuto duro una settimana. Dopo il quarto giorno abbiamo saputo che Esselunga stava cedendo il nostro appalto. Rientriamo a lavorare, la cooperativa aveva paura di perdere tutto».

Poi lunghi mesi di ritorsioni, sospensioni disciplinari, ferie obbligate. E picchetti di due ore, a sorpresa. «Un giorno sono arrivati i carabinieri, io avevo in tasca la sentenza di reintegro del Tribunale, ho detto: voi siete l’autorità, fate rispettare la legge. Fatemi tornare nel mio posto di lavoro». Poi invece è arrivata l’ordinanza del sindaco. «Al mio paese non avevo mai visto nulla di simile. Centocinquanta poliziotti contro il presidio di cinque lavoratori. Irrompono e spaccano tutto. Il datore di lavoro osserva soddisfatto dal decimo piano». Oggi due su 25 hanno ottenuto una sentenza di reintegro. Tutti gli altri sono ancora senza lavoro. 

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