Jeb Bush: «Il partito repubblicano deve aprirsi agli immigrati»

Jeb Bush: «Il partito repubblicano deve aprirsi agli immigrati»

«Se Romney mi offrisse il posto di vicepresidente, considererei la proposta con grande attenzione. Ma non credo che sceglierà me». Governatore della Florida dal 1999 al 2007, secondogenito di George senior e terzo esponente con ambizioni di grandeur del clan repubblicano più influente d’America, nel corso di un’intervista esclusiva rilasciata a Linkiesta, Jeb Bush non nasconde il desiderio di riconquistare la ribalta nazionale. «Stimo molto Mitt – dichiara – e sarebbe un dovere aiutarlo a sconfiggere Obama». Una disponibilità da prendere terribilmente sul serio. Se non fosse destinata a cadere nel vuoto.

Perché, a quattro anni dall’uscita di scena di George W., per buona parte della destra Usa il brand dei Bush resta tabù. E pensare che, almeno sulla carta, Romney avrebbe più di una ragione per volerlo come suo compagno di viaggio. Sposato con una cittadina messicana e convertitosi al cattolicesimo nel 1995, Jeb rappresenta il ramo «ispanico» della famiglia. Una risorsa potenzialmente eccezionale per il Grand Old Party che cerca di ampliare il proprio elettorato e che guarda con interesse agli immigrati di seconda generazione, in un Paese in cui ogni mese 50 mila latinos diventano maggiorenni. Per non dire della popolarità di cui gode in Florida, penisola da sempre oscillante, e che potrebbe tornare assai utile in una corsa presidenziale presumibilmente decisa dall’orientamento di un pugno di Stati.

«Ho dalla mia circostanze e contingenze fortunate», ironizza. Forse è vero, ma sottovalutarne il peso politico e finanziario è pressoché impossibile. Due esempi. Fundraiser straordinario, Jeb è strettamente legato ai principali finanziatori della causa repubblicana – tra questi il Superpac American Crossroads, il comitato elettorale fondato da Karl Rove, storico braccio destro di George W., che in vista di novembre ha intenzione di spendere oltre 100 milioni di dollari. Ed è stato il suo endorsement, offerto a Romney il 22 marzo scorso, a segnalare la volontà dell’establishment di mettere fine alle primarie che stavano dilaniando il fronte conservatore. «Ho pensato fosse giusto schierarmi al fianco di Mitt per interrompere una lotta fratricida che aveva provocato la deriva verso destra di tutti i candidati», ci rivela.

Ma è proprio qui che la questione si fa ingarbugliata. L’attuale partito repubblicano appare culturalmente lontano anni luce da quello dominato per oltre un ventennio dai Bush. In materia di intervento statale nell’economia, di riduzione del debito pubblico e di politiche dell’immigrazione, la base del Gop – influenzata dal conservatorismo populista del Tea Party – oggi si relaziona con diffidenza alla tradizione di famiglia. E probabilmente accoglierebbe con freddezza la candidatura di Jeb. «Non saprei – ci dice schivando l’argomento solo in parte – però mi sono trovato spesso in disaccordo con quanto sentivo ripetere dai miei colleghi nei dibattiti organizzati per le primarie». L’integrazione della minoranza ispanica nella società statunitense è un tema che sta particolarmente a cuore all’ex governatore. Negli anni s’è prima schierato a favore del Dream Act, la proposta di regolarizzazione per i figli dei sans papiers, e poi contro la legge approvata in Arizona che consente alle autorità locali di fermare chiunque “abbia l’aria” del clandestino.

In entrambi i casi Romney ha adottato posizioni opposte, in linea con l’ortodossia repubblicana. «E’ necessario che il Gop smetta d’essere una realtà esclusivamente bianca – afferma Jeb con entusiasmo – . Moltissimi latinos condividono i valori della destra, eppure si sentono esclusi dalla nostra retorica». Il Gop può incarnare alla perfezione le loro aspirazioni. «I cittadini ispanici chiedono di avere l’opportunità di lavorare duro e di perseguire i loro sogni: ciò che storicamente il nostro partito, attento alle libertà individuali e sospettoso del potere centrale, cerca di offrire a tutti gli americani». Il punto – a suo avviso – è convincere i conservatori ad andare oltre «la logica dell’assedio». «Non possiamo limitarci a intensificare le deportazioni e a costruire nuove barriere alla frontiera. Dobbiamo sviluppare una cultura di inclusione che ci ponga in sintonia con i nuovi arrivati, l’unico segmento demografico del nostro Paese che continua a crescere».

Di norma, nel passaggio dalle primarie alle presidenziali, i duellanti stemperano le posizioni più estreme nel tentativo di guadagnare il centro, ma è improbabile che Romney decida di portare la discussione sul terreno accidentato dell’immigrazione o che nell’attuale congiuntura economica voglia avere un Bush al suo fianco. Percepita la direzione del vento, anche per questo Jeb preferisce sponsorizzare la candidatura a vicepresidente di Marco Rubio, giovane senatore della Florida di origini cubane. «Sono convinto che Marco, oratore formidabile ed espressione stessa del sogno americano, garantirebbe a Mitt un valore aggiunto difficilmente uguagliabile». Al momento però fra gli strateghi di Romney prevarrebbe la dottrina del “do no harm”, del “non fare danni”, e Rubio – politico talentuoso ma inesperto – rischia d’essere tagliato fuori dal lotto dei papabili.

All’interno del clan dei Bush la frustrazione è tangibile. Un membro della famiglia che preferisce rimanere anonimo ci spiega che «Romney non avrà il coraggio di scegliere Jeb perché ne sottovaluta la presa sull’elettorato e l’ammirazione che molti americani ancora nutrono per George W.». In caso di (inatteso) contatto – ci fa notare – il tramite tra i due sarebbe comunque Ron Kaufman, ex Chief of Staff del 43° presidente. In privato George W. racconta invece ai suoi di confidare nel precedente di Harry Truman che, lasciata la Casa Bianca tra l’ostilità generale, ha visto la propria reputazione riabilitarsi negli anni. Anche Jeb sembra essersi rassegnato ad aspettare. Almeno fino al 2016. «Il tempo sarà galantuomo – ci assicura – . Del resto Obama non potrà continuare all’infinito a incolpare mio fratello delle problematiche dell’economia. Presto i nodi verranno al pettine».

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