BRUXELLES – A Bruxelles si parla già di “cartellino giallo” per la Commissione Europea sul diritto di sciopero. A imporlo, prima assoluta – in base al nuovo Trattato di Lisbona – 12 parlamenti nazionali che hanno protestato contro una proposta legislativa della Commissione che riguarda soprattutto i lavoratori dislocati in un altro Stato Ue, e di cui tornerà domani a parlare il collegio dei commissari. Al centro è la cosiddetta “Monti II”, più formalmente nota come «proposta di regolamento sull’esercizio del diritto di promuovere azioni collettive nel quadro della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi». Sullo sfondo, due sentenze della Corte di Giustizia europea del 2007, che evidenziarono un possibile conflitto tra funzionamento del mercato interno e diritto di sciopero.
Nella prima (Laval), la corte condannò i sindacati svedesi che avevano organizzato un’azione di protesta per far applicare il contratto collettivo di Stoccolma a un’impresa lettone che aveva vinto una gara d’appalto per la costruzione di una scuola in Svezia. E nella seconda (Viking Line) la Corte aveva vietato ai sindacati finlandesi di indire uno sciopero secondo il diritto di Helsinki a bordo di un traghetto tra Finlandia ed Estonia. In un rapporto presentato il 9 maggio 2010, Mario Monti, allora consulente della Commissione, osservava che le sentenze «hanno riproposto una vecchia frattura mai sanata: la divisione fra i sostenitori di una maggiore integrazione del mercato e coloro che considerano l’appello alle libertà economiche e alla soppressione delle barriere normative la parola d’ordine per smantellare i diritti sociali tutelati a livello nazionale», frattura che potrebbe far «allontanare dal mercato unico e dall’Ue una parte dell’opinione pubblica – i movimenti dei lavoratori e i sindacati – che nel corso del tempo è stata una sostenitrice fondamentale dell’integrazione economica».
La Commissione, lo scorso 21 marzo ha pubblicato una proposta di normativa che cerca di fare chiarezza. L’obiettivo, spiega Bruxelles, è quella di “rassicurare” «dai timori che nel mercato unico le libertà economiche abbiano primazia sul diritto di sciopero». La proposta, scrive la Commissione, «non pregiudica in alcun modo l’esercizio dei diritti fondamentali riconosciuti negli Stati membri, compreso il diritto o la libertà di sciopero o di promuovere altre azioni». Tuttavia il testo ha suscitato grosse perplessità dei sindacati. Ad esempio la Cgil lamenta a chiare lettere che la proposta metta alla pari diritto di sciopero e libertà economiche. «Il fatto – scrive in effetti la stessa Commissione in una nota di presentazione dell’articolato – che si attribuisca uno status di parità ai diritti fondamentali e alle libertà di stabilimento e di prestazione di servizi implica che tali libertà possono dover essere limitate al fine di tutelare i diritti fondamentali. Tuttavia, implica anche che l’esercizio di tali libertà può giustificare una restrizione all’esercizio effettivo dei diritti fondamentali».
La limitazione del diritto di sciopero a livello europeo, proprio in nome del funzionamento del mercato interno, è insomma possibile. A questo si aggiunge – altro elemento che preoccupa i sindacati – la creazione di un «meccanismo di allarme rapido» per comunicare agli altri stati interessati e alla Commissione «gli atti o le circostanze gravi che perturbano gravemente il corretto funzionamento del mercato unico o causano gravi tensioni sociali al fine di prevenire e limitare nella misura del possibile il danno potenziale». Il dissidio che Monti chiedeva di risolvere sembra restare.
Le proteste non si sono fatte attendere. Solo pochi giorni fa il gruppo dei Socialisti e Democratici all’Europarlamento ha chiesto alla Commissione di ritirare il progetto, riferendosi alla presa di posizione, come dicevamo, di 12 parlamenti nazionali (Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Gran Bretagna, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Olanda, Polonia, Portogallo, Svezia). Grandi assenti: Italia, Germania e Spagna. Per il nostro Paese, anzi, la Commissione Lavoro del Senato ha già approvato una relazione del senatore del Pdl Maurizio Castro, favorevole al testo della Commissione. Di tutt’altro parere invece i Paesi citati: il messaggio generale è che si tratta di materia puramente nazionale e che la Commissione non c’entra un bel niente. Alcuni, come i francesi, proprio a tutela del diritto di sciopero. Altri, come i britannici, in nome della sovranità.
Il trattato di Lisbona prevede che se almeno 18 dei 54 punti complessivi assegnati ai parlamenti nazionali (uno per ogni camera per i paesi bicamerali, due per quelli monocamerali) esprimono un parere motivato negativo, la Commissione deve o rivedere la proposta, o annullarla, o quanto meno spiegare per iscritto perché intende andare avanti. Con i 12 paesi saremmo a 19 punti, ma, spiegano fonti della Commissione, domani il collegio dei commissari dovrà valutare se effettivamente le cose stanno così e decidere di conseguenze. Interessante è che anche Business Europe, che rappresenta le confindustrie dei 27 stati membri, ha emesso un parere nettamente negativo, sempre sulla linea della sussidiarietà, ovviamente però in senso pro-imprese: Bruxelles si tenga fuori, per le questioni transfrontaliere bastano e avanzano le due sentenze della Corte Ue. Anche in questo caso l’Italia è assente: la Confindustria non ha avuto il tempo di analizzare con cura il testo, e non si è espressa. Una cosa è comunque chiara: la controversa normativa ha poche chance perché gli stati dovranno approvarla all’unanimità.