I discorsi sulla guerra, se letti da dietro una lente estranea e opaca, incarnano strategie ad effetto, colpi dritti al ventre, ma senza radici. Non è il caso di Wajdi Mouawad, scrittore, regista e attore di origine libanese approdato da anni nel Québec. La sua appartenenza a una terra ormai incapace di riconoscere inizio e fine delle proprie rabbie civili svela condizioni precise attorno a cui Mouawad avvita gli atti di una “tetralogia della memoria”.
Incendi è il secondo affidato al destino di una donna, Nawal Marwal, cui a soli quattordici anni viene strappato dal ventre un figlio nel mezzo delle guerre. Da allora cammina inesausta in cerca dell’unica prova dell’amore vissuto con Wahab, il giovane disperso che per primo le ha trasmesso il conforto dello stare insieme. Ma l’attrito dell’esistenza passata di Nawal è soprattutto una ferita aperta nella scrittura di Mouawad divisa tra gli spostamenti della donna a fianco di Sawda, una profuga dalla quale ha imparato a cantare in cambio dell’insegnamento dell’alfabeto, e un presente fatto di una giacca, un quaderno rosso, tre buste e un testamento.
Nella seconda vita di Nawal in Canada esistono altri due figli, Jeanne e Simon, due gemelli cui affida, dopo la morte e per il tramite del notaio Lebel, una lettera da consegnare al padre creduto morto, una al fratello di cui ignorano l’esistenza e una terza da aprire solo a cose fatte. A quelle lettere e al testamento pronto da anni spetta dunque l’apertura e chiusura di un dramma a intrico, una matassa di torture. Prima fra tutte l’incesto che fa di Nawal la vittima dello stupro inflittole ripetutamente dal figlio ritrovato carceriere e presto padre, oltre che fratello dei gemelli frutto della sua collera morbosa.
Se allora è a un testamento che si appellano i rancori di chi rimane, se la ricerca del padre-fratello finisce per travolgere la matematica pura in cui da sempre Jeanne confida, proprio l’assenza di soluzione e la continua “addizione del dolore” rendono Incendi un luogo teatrale a campo infinito. Una sfida accolta da oltre un anno in Italia prima dal comitato artistico di Face à face – Parole di Francia per scene d’Italia, poi dalla produzione Teatro i con la regia di Renzo Martinelli e l’adattamento di Francesca Garolla.
In scena si accatastano quelli che sono i “frammenti da consolare”, una miseria collettiva e senza patrie definite: dei mattoni bianchi a memoria dei muri sgretolati o abbattuti, una scrivania simile alla cattedra consumata di una scuola e presto lapide, tonfo che fa sobbalzare come metronomo tra un flash-back e l’altro in mezzo a grida e silenzi di Nawal, “la donna che canta”. E come le lettere dell’alfabeto per Mouawad servono da munizioni, così i segni, i linguaggi della solitudine di Nawal si sovrappongono a un velo con cui coprirsi e tramutare identità: dall’eco del villaggio alle figure che una dopo l’altra inscenano il conflitto, ai microfoni che amplificano le distanze delle voci fino al monologo conclusivo davanti alla corte del Tribunale Internazionale.
In piedi, sulla tavola rovesciata della cattedra, Federica Fracassi è una Nawal che fissa dritto negli occhi il pubblico anonimo. Là dove una corte assiste alla testimonianza, ai nomi e cieli scoperchiati sotto cui abita quel clown che ha già fatto irruzione esibendosi in imbarazzanti pose da spettacolo. Quel figlio a sua volta in cerca della madre e inevitabile cecchino, primo responsabile del male con il sottofondo di musiche anni Ottanta. Gli dà voce Libero Stelluti, che per l’aspetto troppo giovane amplifica l’aberrante richiamo a Edipo.
A quel punto tutto rallenta, sembrano alieni gli impacci forzati di Roberto Rustioni nei panni del notaio Lebel che storpia i proverbi, o lo sguardo basso e l’inadeguatezza scelti come cifra tragica da Valentina Picello per raccontare il dolore sommesso di Jeanne. Seguono l’odio e la bestemmia di Simon, il gemello che all’inizio scalcia e con Francesco Meola si arrende al tremore di un personaggio fragile al pari degli altri. Sulle assi del palcoscenico scorrono nasi da clown e, mentre la voce di Nawal si fa tanto gelida quanto urlata, si avverte sia la fatica della resa complessa che Mouawad sottopone, sia la contemporanea urgenza, forse, di un coraggio più avido di chiarezza che non di nuovi segni e simboli già densi nella drammaturgia originale.
Non ci si riferisce a un confronto furbo con la versione cinematografica de La donna che canta di Denis Villeneuve, dove proprio il mezzo filmico in sé consente fluidità e compartecipazione maggiori. Si tratta invece di penetrare meglio, senza sottolineature di pathos, in quelle parole che più di altre valgono come sintesi teatrale: “Ci sono verità che non possono essere rivelate che a condizione di essere scoperte.”
INCENDI
di Wajdi Mouawad _ Agence artistique Simard Denoncourt Inc.
traduzione di Caterina Gozzi
regia Renzo Martinelli
con Federica Fracassi, Francesco Meola, Valentina Picello, Roberto Rustioni, Libero Stelluti
adattamento Francesca Garolla
scene Renzo Martinelli
produzione Teatro i
in collaborazione con Face à face -Parole di Francia per scene d’Italia, Institut Français Milano e Delegazione del Québec a Roma