La protesta dell’artista di fronte al giudizio aperto, spesso scoppiato, della critica e dei benestanti che riempiono pareti domestiche con quella “merce” sconosciuta che un giorno varrà, è un grido impregnato di colore. È la prospettiva dell’allievo che si prende tempo per rispondere e dare suggestioni all’impronta, è il tormento di un pensiero instancabile in cerca d’altre campiture.
Markus Rothkowitz, meglio noto come Mark Rothko, ebreo lettone emigrato negli Stati Uniti agli inizi del secolo scorso, per tutta la vita attraversa i ripiegamenti di un’indagine da conoscitore e già oppositore spirituale del mercato dell’arte, come di tutte le facili categorie che assimilano la sua produzione all’espressionismo astratto. Sullo stesso cardine fonda la convinzione che un dipinto non possa essere l’esito di un banale giudizio estetico, ma di una lunga meditazione dove confluisce la smania paradossale della concretezza, indivisibilità e comprensibilità di quel che si osserva. Una lotta impari che Rothko conduce contro se stesso e l’istinto di abbandonare i toni mai definiti del rosso per restare irrimediabilmente intrappolato nel nero di quelle Black form che caratterizzeranno la sua pittura più tarda e austera degli anni Sessanta.
Lungo questa stessa scarnificazione delle forme e loro resa bidimensionale, priva di virtuosismi, si profila la teatralità di un maestro che John Logan – noto sceneggiatore cinematografico più volte a fianco di Burton, Spielberg e Scorsese – ritaglia nella drammaturgia di Rosso a confronto con un giovane pittore suo assistente per due anni. Un copione ancora inedito in Italia e con fatica affidato a Ferdinando Bruni – un Rothko corrosivo, autenticamente anticonformista – e alla misurata tenacia di Alejandro Bruni Ocaña nel ruolo dell’assistente Ken.
In scena, tra lembi di parole sprezzanti, sofferte e a ritmo tragicamente serrato, la regia di Francesco Frongia prima ascolta e poi inevitabilmente incalza nel mare aperto dell’artista alle soglie di una tra le più importanti commissioni mai ricevute: una serie di murali per il Seagram Building di New York. È il terreno di un conflitto tra il ritorno del colore, che ogni volta sembra risucchiare sguardo e viscere come il progetto di Michelangelo per la scala della Biblioteca Laurenziana di Firenze, e il vuoto cui il dipinto va incontro nella mancata corrispondenza con la sua destinazione finale.
Muoversi insieme con la tela, lasciarla espandere e trovare una collocazione a rosso e nero sono il margine irrisolto cui solo un giovane può tentare di porre argine urlando che, alla fine, si tratta di opere soggette a un’era che accoglie favorevolmente l’ironia della Pop Art guardando in tralice chi, come Rothko, esalta lo spazio alieno alla luce naturale. O, ancora, si vanta d’aver ucciso il Cubismo accanto a De Kooning e alla New York School dei primi anni Quaranta, riducendo Picasso a un padre da rispettare e subito dopo infilzare, perché l’arte continui a sopravvivere ben oltre le sue premesse rivoluzionarie. Ma è quello stesso padre cubista ad aver provato la propria grandezza squarciando il velo tra verità e menzogna, là dove è bandito il gusto momentaneo del pubblico vanesio ed è invece assolto chi davanti ai Seagram murals del 1959 avverte la differenza e lascia che gli si fermi il cuore.
Non esistono soluzioni tranne l’onestà pratica, ma dolente dell’artista che rinuncia alla commissione e restituisce i soldi, quando il chiasso delle posate e delle mondanità poco si addice a un atto di cui il gesto sulla tela rappresenta soltanto l’epilogo più sfuggente. Ed è lo stesso Rothko a chiedere a quel figlio acquisito che gli mescola amaranto e nero, che per primo gli racconta del rosso dell’alba e del sangue rappreso sulla moquette di famiglia, di andarsene e fare qualcosa di nuovo. Rothko licenzia Ken dopo averlo infestato con la rottura di ogni illusione, con la indispensabile civilizzazione che viene dal passato, dalla lezione del Rinascimento italiano e dalla pietà dura verso amici e rivali quali Jackson Pollock con cui spartisce, però, la densità di strati simili a pentimenti.
Ferdinando Bruni scompare mirabilmente dietro la solitudine odiosa del pittore suicida che ammette di non reggere all’incompatibilità con il resto del mondo, antro zeppo di ipocrisie e massificazioni pronte ad annullare il vero con la moneta del formalismo corrente. I movimenti scenici sono rari, così la bellezza della traduzione di Matteo Colombo e quell’uso mai immotivato di pigmenti, tele tirate, sgocciolati, brani jazz contro melodie classiche in lotta con la forza bruta di un nero inesorabile che nel 1970 finirà per inghiottire l’anima del rosso.
Milano – Teatro Elfo Puccini, sala Fassbinder 8 maggio – 3 giugno
Festival delle Colline Torinesi 15 e 16 giugno
Rosso
di John Logan
traduzione di Matteo Colombo
regia, scene e costumi di Francesco Frongia
con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña
luci di Nando Frigerio
produzione Teatro dell’Elfo
prima nazionale