È quasi un terremoto quello che si è abbattuto in questi giorni sulla società italiana. Se da un lato con il voto greco e con quello francese il quadro europeo si fa sempre più complicato, e se d’altro lato lo stillicidio dei suicidi (soprattutto nelle micro-imprese di provincia) attesta quanto sia drammatica la crisi economica in atto, le elezioni amministrative restituiscono un’immagine davvero inedita della politica italiana.
Non solo l’astensione arriva a livelli altissimi e ha luogo il previsto exploit delle liste che fanno riferimento a Beppe Grillo, ma soprattutto si assiste allo sfaldamento dei partiti tradizionali. Dopo gli scandali e il malgoverno, perdono una gran parte dei loro voti tanto la Lega come il Pdl, ma incontrano serie difficoltà pure il Pd e un terzo polo del tutto evanescente. Il politichese è una lingua ormai incomprensibile ai più e un lungo record di presenze nel salotto di Bruno Vespa sembra più un handicap che un punto di forza.
Qualche elemento già emerso nelle precedenti elezioni esce decisamente rafforzato. In particolare, le caratterizzazioni ideologiche contano sempre meno, com’è attestato dalla scomparsa (forse ormai definitiva) dei partiti comunisti. Più in generale, il declino delle formazioni storiche è parte di una complessiva delegittimazione della classe dirigente: a ogni livello. Politica, religione, imprenditoria, informazione, giustizia e sindacato sono sempre più percepiti con stanchezza e distacco da una società disamorata, delusa, tradita.
È interessante come in questo quadro se qualcosa regge lo si deve alla stima che può ancora suscitare intorno a sé questo o quell’amministratore locale: come nel caso di Flavio Tosi e dello stesso Leoluca Orlando a Palermo, per molti anni primo cittadino del capoluogo siciliano.
Provando a proiettare su scala nazionale non tanto il voto di domenica, ma talune tendenze in atto, è facile essere pessimisti. Il rischio di un esito in parte “alla greca” non è del tutto remoto, specie se si considera che l’incontro tra la tecnocrazia ministeriale e l’azione implacabile dell’Agenzia delle entrate sta minando, insieme a quel che resta dell’economia privata, la residua credibilità dei partiti che reggono l’esecutivo. Le reazioni populiste sono scontate e ad esempio non è un caso che, soprattutto in rete, si stia assistendo a un’autentica esplosione di teorie economiche pericolose o bislacche: dalla MMT propagandata da Paolo Barnard alle tesi in materia di signoraggio.
La Casta merita certo di essere spazzata via e con essa quell’austerità a base di nuove imposte che pensa di salvare i conti pubblici sacrificando l’economia produttiva, senza mai toccare i privilegi dei dipendenti pubblici e degli altri beneficiari (si pensi alle grandi imprese) della protezione di Stato. Ma ora c’è anche il rischio che tale dissoluzione conosca esiti in qualche modo autoritari e “putiniani”, dato che i salvatori della Patria trovano l’opportunità di emergere proprio nello sfascio.
Nell’anno che ci separa dalle elezioni legislative si gioca quindi una partita cruciale. C’è infatti la necessità che quanti hanno devastato conti pubblici, economia, società e istituzioni vengano definitivamente accantonati. Chi ci ha condotto in questa situazione deve tranquillamente tornare alla sua professione originaria, se ne ha una. Al tempo stesso è forte l’esigenza che si crei un nuovo equilibrio, ben sapendo che il “nuovo” deve trovare espressione e rappresentanza, perché nell’Italia di Twitter e Facebook è comprensibile che il sito di Grillo pesi più di tante sezioni del Pd sparse per la penisola. Non bisogna neppure scordare, però, che i nuovi fermenti sociali impostisi con forza in queste ore sono chiamati a dialogare con una parte del “vecchio”, tanto importante in un’Italia così anziana e fatta di pensionati, per i quali il grillismo telematico non significa nulla: anche per ragioni anagrafiche.
Il nostro è un Paese che ha bisogno di cambiamenti, ma al tempo stesso li teme. C’è allora la necessità di forze rinnovatrici che sappiano costruire una loro autorevolezza e si facciano accettare pure da quanti hanno l’età di Giorgio Napolitano e magari hanno alle spalle una storia (quella di Don Camillo e Peppone, per intendersi) in parte analoga. Solo una rivoluzione di velluto, insomma, può portarci fuori dal guado e allargare gli spazi di autonomia.
A questo scopo, sarebbe allora importante che una nouvelle vague di protagonisti trovasse il proprio riferimento ideale nella dimensione locale e nel suo rafforzamento: là dove la politica mantiene un volto riconosciuto e, in qualche caso, apprezzato. Con tutti i loro limiti, i sindaci sono figure costrette a occuparsi di problemi reali e chiamate a rendere conto di quanto fanno. Se il governo nazionale è l’irresponsabilità elevata a sistema, nel municipio si può respirare un’aria diversa: quale che sia il colore del primo cittadino.
Presente a Milano su invito dell’Istituto Bruno Leoni nelle stesse ore in cui uscivano dalle urne i numeri dello sconquasso politico che ha affossato Umberto Bossi e Silvio Berlusconi, l’economista americano Tyler Cowen ha parlato della necessità – per il nostro Paese – di abbracciare soluzioni “bottom-up”: che muovano dal basso verso l’alto e responsabilizzino gli attori, mettendo le singole giurisdizioni in competizione. Localizzare i centri decisionali vorrebbe dire rendere “più umana” la politica, operando un trasferimento di poteri (tassazione, regolazione, gestione del bilancio ecc.) dal centro alla periferia, anche prendendo sul serio la proposta avanzata dalla Confindustria veneta di attribuire alle regioni il debito pubblico.
Per realizzare anche solo in parte tutto ciò è però necessario rompere definitivamente con i tabù e i sacri dogmi tanto cari al Quirinale – i sacri miti della Politica e della Repubblica – e c’è l’esigenza di un largo ricambio nel personale: dell’avvento di qualcuno che sappia essere classe dirigente senza voler farsi (perché lo spirito anti-casta non lo tollererebbe più!) ceto politico a vita.
*Carlo Lottiere è professore di Filosofia Politica all’Università di Siena