Quattro anni fa, alla vigilia delle elezioni parlamentari dell’11 maggio, sembrava che i nazionalisti del Partito radicale (Srs), guidati dal poco raccomandabile Vojislav Seselj, processato dal tribunale dell’Aja con l’accusa di crimini di guerra, potessero prendere il potere, spostare molto a destra l’asse politico della Serbia e congelare il dialogo con l’Europa. Fu la Fiat, sostengono in molti, a togliere le castagne dal fuoco al presidente Boris Tadić e al suo Partito democratico (Ds), capofila della coalizione europeista, premiata da quella tornata elettorale.
A quattro giorni dalle elezioni l’aziende torinese annunciò il maxi-investimento che, tramite la creazione di una joint venture con lo stato serbo, ha rivoluzionato la storia degli impianti automobilistici di Kragujevac, portando all’estinzione della Zastava (il celebre marchio automobilistico della Jugoslavia, con alle spalle una lunga collaborazione proprio con il Lingotto) e aprendo un’era segnata dalla produzione massiccia di vetture Fiat. L’intesa, è vero, fu siglata dal governo uscente, capeggiato da Vojislav Kostunica, ex pupillo dell’Occidente, passato con il tempo su posizioni sempre più nazionaliste. Ma gli analisti ritengono che l’arrivo della Fiat a Kragujevac abbia messo le ali alla coalizione a trazione Ds, fautrice dell’avvicinamento alla Ue e di grandi aperture ai capitali stranieri, considerati lo strumento con cui ridare prospettiva al Paese, diluendo la portata della perdita del Kosovo, giunta proprio nel 2008 e trasformata da Kostunica e dal Partito radicale nel tema principale delle scorse elezioni.
La Serbia, domenica 6 maggio, torna alle urne e la storia sembra ripetersi. Venti giorni fa la Fiat, dopo quattro anni di ristrutturazione e ammodernamento, ha avviato la produzione nello stabilimento di Kragujevac, che secondo i piani sfornerà, a partire dal 2013, 130mila modelli di 500L, versione quattro porte della storica utilitaria, dando lavoro entro la fine dell’anno a 2433 persone. Molti hanno visto nella tempistica dell’inaugurazione delle catene di montaggio – tenute a battesimo da Sergio Marchionne in persona – una pubblicità elettorale a favore del Partito democratico e di Boris Tadić, che cercano di confermarsi rispettivamente come prima forza del governo e come capo dello stato (parlamentari e le presidenziali, quest’ultime convocate in anticipo, si tengono nella stessa giornata).
Eppure lo scenario non è come quello del 2008. Due i motivi. Il primo è che in questi quattro anni la Serbia di Tadić non è riuscita a progredire come avrebbe voluto sul fronte dell’economia. I nuovi investimenti operati dalle imprese estere già presenti nel Paese e l’arrivo di altre corazzate, avvantaggiate dagli sgravi fiscali offerti da Belgrado e dal costo abbordabile della manodopera, non hanno ancora migliorato la vita dei serbi. È senz’altro vero che ci vuole tempo e non c’è dubbio che la crisi abbia frenato gli investimenti. Ma lo squilibrio tra un tasso di disoccupazione vicino al 25% e l’afflusso impetuoso di capitali in quello che viene definito come il “nuovo eldorado” d’Europa – oltre a Fiat lo sanno bene Pompea, Calzedonia, Benetton, Omsa, Generali, Intesa Sanpaolo e Unicredit – è difficilmente commentabile.
Il secondo motivo è di natura politica. Dall’altra parte della barricata c’è stata un’importante evoluzione. Il Partito radicale, capace nel 2008 di conquistare il 29% dei voti, è ridotto a poca cosa e rischia di non superare la soglia di sbarramento del 5%. Il grosso dei suoi elettori ha seguito lo scissionista Tomislav Nikolić, ex candidato radicale alle presidenziali, che poco dopo il voto di quattro anni ha fondato il Partito progressista (Sns), scegliendo la causa europeista. La contesa non è più dunque la solita, tra una coalizione filo-europea e una che professa una forma di nazionalismo spinto e anti-europeo. Tadić e il Partito democratico dovranno faticare molto, se vogliono vincere.
Vinceranno, comunque. Non tanto in virtù della sortita di Marchionne, né sulla scorta degli ottimi risultati ottenuti sul fronte dell’integrazione europea – la Serbia vanta ora il rango di Paese ufficialmente candidato all’adesione – grazie alla cattura dei criminali di guerra Radovan Karadžić, Ratko Mladić e Goran Hadžić, che ha momentaneamente convinto l’Ue a tenere sullo sfondo la questione, sempre aperta e di difficilissima soluzione, del Kosovo. A decidere la partita sarà il Partito socialista (Sps), che con il suo 11-12% è l’ago della bilancia e che, anche stavolta, sceglierà di allearsi con i Ds al governo, favorendo così la vittoria di Tadić al secondo turno delle presidenziali (è matematico che ci si andrà). Difficile, d’altronde, che i socialisti si facciano allettare dalle offerte di Nikolić. L’esperienza di governo li ha aiutati a rifarsi il pedigree, sganciandosi dai retaggi dell’epoca di Slobodan Milošević. Chiaro, tutto può succedere. Ma perché mai – si chiedono i più – il numero uno dell’Sps, il popolarissimo ministro dell’Interno Ivica Dačić, dovrebbe favorire il ribaltone? Cosa ci guadagnerebbe?