BRUXELLES – Doveva essere la “voce” dell’Unione Europea nel mondo, la svolta della nuova Europa uscita dalla quasi “costituzione” del Trattato di Lisbona verso una vera politica estera comune. Invece il nuovo Servizio europeo di azione esterno (Seae), guidato dalla sempre più controversa Catherine Ashton – Alto rappresentante per la politica estera Ue, come dire “ministro degli Esteri“ europeo – a poco più di un anno dalla sua entrata in attività continua a funzionare piuttosto male. Divisioni tra stati membri, rivalità tra le varie istituzioni che forniscono il personale, e tra queste e i 27 ministeri degli Esteri, a volte scelte discutibili dei dirigenti, hanno creato un clima piuttosto negativo oltre a minare l’efficacia del servizio. Basti dire che aumenta costantemente il numero di funzionari che lasciano per tornare ai posti originari, alla Commissione Europea o al Consiglio Ue. A gennaio erano già 60, e la lenta emorragia continua.
Uno dei problemi (ma non certo il solo), spiegano fonti diplomatiche, è la stessa Catherine Ashton. Dal punto di vista organizzativo, raccontano, è un autentico disastro. Molte capitali lamentano che convoca riunioni all’ultimo minuto, senza dare il tempo di prepararsi. Una volta – si parlava di Libia, era il marzo 2011 – convocò a strettissimo giro una riunione, salvo poi dichiarare, a metà seduta, che doveva andarsene. Raccontano che il ministro degli Esteri svedese Carl Bildt, furibondo, le intimò di restare fino a fine seduta, e lei obbedì imbarazzata.
Potremmo raccontare la “gaffe” del terremoto di Haiti, quando il “ministro degli Esteri” Ue solo dopo due mesi dal sisma, e solo dopo fortissime pressioni, si recò sull’isola caraibica, dopo che ci erano stati tutti gli altri big internazionali. Potremmo citare il fatto che l’Ue, dopo aver ottenuto l’agognato statuto di “osservatore privilegiato” all’Onu con diritto d’intervento, si è vista davvero pochino al Palazzo di Vetro. I maligni sostengono che la britannica Ashton, starebbe in realtà «seguendo le istruzioni di Londra», da sempre molto ostile all’idea di una “politica estera” Ue.
Il problema, si sente dire a Bruxelles, non è tuttavia solo politico. Il servizio non è stato progettato con cura, e questo, dicono «lo stiamo pagando caro». Non a caso lo scorso 8 dicembre 12 paesi (Italia, Belgio, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Polonia e Svezia) scrissero una dura lettera in cui si chiede di migliorare il servizio.
Non sarà facile, perché molti problemi sono per così dire «strutturali». Cominciamo dal personale: esso viene attinto dalla Commissione Europea, dal Consiglio Ue, ma anche dalle diplomazie nazionali. «Avevamo sperato che il comune servizio “fondesse” il personale, invece le varie anime restano intatte» lamenta un funzionario del Seae.
Gli animi sono esasperati dall’assegnazione dei posti: «Molti paesi – dice lo stesso funzionario – perseguono obiettivi strettamente nazionali nel Seae, alcuni, come la Francia, sono eccezionali nel piazzare i propri uomini, mentre noi che ci ammazziamo di lavoro tutti i giorni e conosciamo molto meglio i dossier veniamo semplicemente scavalcati. È frustrante». C’è di peggio, spesso si accavallano non solo diverse “candidature“ nazionali, ma anche diversi nomi a seconda dell’istituzione che li sostiene. «Mi volevo candidare per un posto – dice un italiano di provenienza Consiglio Ue – salvo che poi ho saputo che la Farnesina aveva il suo uomo, nessuno mi aveva detto niente».
Neanche a dirlo, l’ambito posto è stato poi assegnato a un non italiano.
Per non parlare, a volte, della scelta dei dirigenti. Raccontano ad esempio di un diplomatico di un paese dell’Est, inquisito nel suo paese per molestie sessuali quando era alla sua ambasciata nel Sud-Est asiatico e per questo richiamato in patria, prontamente messo a fare il numero due di una importante delegazione (praticamente un’ambasciata) Ue in un importante paese dell’Asia Centrale.
Il problema è anche la Commissione Europea, gelosissima delle sue competenze e mai davvero rassegnata a “cederne” al nuovo servizio – la Ashton, peraltro, è anche vicepresidente dell’esecutivo Ue, e ha dunque “doppio cappello”. Buona parte dei fondi per il Seae (9,5 miliardi di euro l’anno), sono gestiti direttamente dalla Commissione. «Ci hanno detto – sbotta un funzionario Seae – voi avete il microfono, ma noi abbiamo i soldi».
I tre commissari per Sviluppo, Vicinato e Aiuti umanitari mantengono pieno controllo sui loro comparti, anzi l’accordo interistituzionale Seae-Commissione prevede che il Servizio «si astenga da prendere misure su questioni che ricadono nelle competenze della Commissione». L’aspetto più paradossale si vede a livello delle 140 delegazioni Ue, gestite formalmente dal Seae: mentre il capodelegazione è sempre più ingolfato di burocrazia, visto che è l’unico autorizzato a firmare autorizzazioni di spese e bilanci, membri del personale di provenienza della Commissione ricevono ordini diretti dalle rispettive direzioni generali a Bruxelles, spesso a totale insaputa dello stessa capodelegazione. La comunicazione, insomma, non funziona.
«Una delegazione Ue – scrivono non a caso i 12 ministri – può funzionare in modo efficace solo se il capodelegazione riceve tutte le informazioni necessarie a tempo debito e si può pienamente concentrare sulle priorità politiche e la sua delegazione può gestire le sue spese amministrative in modo efficiente». «Il problema non è avere tanti capi diversi – si sfoga un funzionario del Servizio – il problema è che non si parlano, la mano sinistra non sa che cosa fa la mano destra. Così non si può lavorare». Anche lui sta pensando di andarsene.