Nel rapporto tra il capo e la massa si gioca una delle questioni cruciali della politica. E, anche se è giunta davvero fuori tempo massimo, la proposta avanzata da Silvio Berlusconi di un Presidente forte e investito direttamente dal popolo (dotato di una maggioranza parlamentare solida, grazie a un sistema uninominale a doppio turno) mostra come lo sfascio del sistema italiano obblighi a riconsiderare antiche questioni: a partire dall’esigenza di aprire una stagione costituente. Dallo stesso Pd, d’altra parte, viene la proposta di utilizzare la prossima legislatura per una riforma radicale delle istituzioni.
Detto questo, l’idea di puntare di nuovo sul presidenzialismo non convince: e non solo perché la proposta viene da un leader politico in disarmo che, per una parte significativa del Paese, rappresenterebbe la peggiore delle soluzioni possibili. Le difficoltà sono altre e ben più profonde.
L’idea di una costituzione “decisionista”, in senso schmittiano, viene da lontano. Tra le molte iniziative in tal senso va ricordata quella di Bettino Craxi e ancor prima il lavoro di quel “Gruppo di Milano” che Gianfranco Miglio riunì all’inizio degli anni Ottanta (sul tema si vedano i due volumi di Una repubblica migliore per gli italiani. Verso una nuova costituzione, Milano, Giuffrè, 1983). Ma sarà lo stesso studioso della Cattolica, in seguito, a sottolineare come l’esigenza di recuperare un rapporto più lineare tra politica e responsabilità debba passare non già da una concentrazione del potere, ma dalla sua massima dispersione. Sarà questo che lo porterà ad adottare un federalismo competitivo non privo di tratti libertari: come quando parlò di federazioni “a termine”, che dopo un certo numero di anni liberano da ogni vincolo le comunità federate e vanno eventualmente rinnovate.
Mentre in un primo tempo pensava di uscire dall’irresponsabilità dei governi dell’era democristiana utilizzando un esecutivo particolarmente stabile e autorevole, in seguito Miglio si persuaderà della necessità di valorizzare una logica alternativa a quella della politica, permettendo una concorrenza di mercato tra governi locali, legati da patti volontari. Dal primato della leadership si passa, quindi, a quello dell’uomo comune: l’individuo che produce, organizza, negozia, consuma e quale si trova al centro dell’economia di scambio e della libera impresa.
Poche volte viene sottolineato come Miglio arrivi a ripensare il federalismo grazie alla sua teoria della “doppia obbligazione”, politica e contrattuale. Nell’universo della politica le costrizioni sono imposte dall’alto (in forma autoritaria); nell’ambito del contratto, invece, esse emergono dal basso grazie ad accordi e intese che portano ognuno a vincolare i propri comportamenti. (Sul tema si veda il volume curato di recente da Alessandro Vitale, che riporta le lezioni di politica pura raccolte dagli studenti e ora pubblicate dal Mulino).
Un’analoga tensione si trova al fondo dei conflitti che – solo pochi giorni dopo il travolgente successo elettorale – già travagliano il movimento di Grillo. Il contrasto in merito alla scelta del city manager che oppone il fondatore del movimento e il nuovo sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, discende da un tratto cruciale di questa esperienza politica: poiché il Movimento 5 Stelle vorrebbe segnare la fine di ogni distanza tra rappresentati e rappresentanti (la gente che prende la parola), ma al tempo stesso ciò è stato possibile grazie a una guida dotata di un carisma derivante da anni di celebrità televisiva. D’altra parte, ogni giorno nascono movimenti politici composti da gente qualunque, ma nessuno di loro ha il successo dell’M5S: e questo perché di Grillo ce n’è uno. La crisi di Parma porta però alla luce l’ambiguità di questo nuovo soggetto, che per giunta coniuga il dirigismo statalista di troppe proposte e l’anti-statalismo istintuale di una struttura organizzativa altamente decentrata.
In queste ore il neo-sindaco pare voglia restare fedele alla retorica del grillismo, che intende portare i cittadini all’interno del Palazzo e farla decidere da sé, ma è pur vero che fino a poche settimane fa nessuno conosceva l’attuale sindaco di Parma. Il suo successo è stato determinato da Grillo e anche nel capoluogo emiliano è all’attore genovese che, nella sostanza, gli elettori hanno dato fiducia. Non è quindi facile sciogliere la questione, dato che l’uno e l’altro hanno buoni motivi per rivendicare un titolo legittimo ad avere la meglio. (Sul piano legale, ovviamente, ogni scelta compete al sindaco, ma non è di diritto amministrativo che qui stiamo discutendo.)
La controversia è interessante anche perché ripropone, in forma nuova, le alternative teoriche che Miglio aveva cercato di risolvere quando aveva esaminato l’ipotesi del presidenzialismo, prima, e del federalismo, successivamente. E come lo studioso comasco si risolse a privilegiare un modello altamente polverizzato (nel quale ognuno è chiamato a rispondere di ciò che fa, libero di fare e sbagliare, ma poi obbligato a sostenere i costi delle proprie scelte), anche in questo caso c’è da auspicare che ogni ipotesi decisionista sia accantonata e che, nella piccola diatriba dell’M5S, anche Grillo accetti l’idea che Parma dista da Genova molti chilometri e che non starà a lui preoccuparsi dei parcheggi e delle aiuole.
È vero che bisogna riscoprire e ridare forza a tutto ciò che è in grado di restaurare la responsabilità individuale, ma proprio in questo senso è bene che salti la relazione tra un capo decisore e un gregge governato, tra una leadership assoluta e un’obbedienza servile. Chi obietta che negli Stati Uniti le libertà avrebbero messo solide radici grazie a una repubblica presidenziale dovrebbe tenere presente come il declino dei diritti, al contrario, si debba in larga misura alla crescente concentrazione di poteri nella capitale e come già Thomas Jefferson fosse avverso all’idea di un “re elettivo”, destinato a impadronirsi di buona parte del Paese.
C’è allora un’analogia tra le pretese di Grillo sul movimento che gli stesso ha creato e le logiche statocentriche (parlamentari, ma ancor più presidenzialiste) che sono care a chi vuole rafforzare la capacità decisionale dei politici. Ma va detto a chiare lettere che lo schema della leadership presidenziale rinvia al trionfo del Potere, mentre l’autonomia degli attori (individui, imprese, associazioni, ma anche comuni ed enti locali) esige un ordine giuridico posto a garanzia delle libertà e del pluralismo.
C’è quindi bisogno di lasciarsi alla spalle la carta costituzionale – inadeguata – del 1948, ma solo per consegnare alle periferie un vero potere costituente, perché nella società dell’interconnessione costante sul web non si può sopportare l’immobilità di istituzioni ottocentesche protette da miti incapaci di scaldare i cuori. Questo nuovo avvio implica la sconfitta di ogni inerzia conservatrice ed esige un ardimento che oggi si fatica a riconoscere, ma se non sapremo trovare in noi la forza per cambiare è possibile che sarà presto la crisi a infondere in noi il coraggio di cui abbiamo bisogno.
*professore di filosofia politica, Università di Siena