Basta case discografiche, i dischi si fanno in crowdfunding

Basta case discografiche, i dischi si fanno in crowdfunding

Lei si presenta al mondo come Amanda Fucking Palmer, AFP. E stavolta, davvero, ha fottuto tutti: case discografiche, manager, produttori. La Palmer – ex Dresden Dolls, quelli di Coin Operated Boy – è diventata la recordwoman mondiale nel campo del crowdfunding musicale. Un mese dopo aver avviato sul web una campagna di raccolta di fondi per la realizzazione del suo nuovo album, Amanda si è ritrovata in tasca oltre un milione e duecento mila dollari. E pensare che, inizialmente, ne aveva chiesti “soltanto” centomila. La generosità dei suoi fan, alimentata dal passaparola sui social network, ha fatto il resto. Non è una prima volta per la Palmer, che lo scorso autunno aveva già raccolto 133mila dollari per finanziare un disco realizzato insieme allo scrittore inglese Neil Gaiman.

Ma cominciamo dall’inizio, dalle basi del crowdfunding, le cui origini sono legate – curiosamente – proprio alla musica. L’episodio cui molti legano la nascita del fenomeno risale al 1997, quando i fan americani della rock band inglese Marillion raccolsero, ad insaputa del gruppo musicale, oltre 60mila dollari, cifra che permise alla band di organizzare un lungo tour oltreoceano. Furono gli stessi Marillion, dopo quell’episodio, a decidere di utilizzare questo strumento per finanziare la registrazione e la distribuzione dei successivi tre album. Da allora, il crowdfunding si è perfezionato a livello tecnico, trovando nel web il terreno ideale per estendere il proprio raggio d’azione. Oggi le piattaforme dedicate sono diventate sempre di più: le americane Indiegogo e Kickstarter (quest’ultima scelta dalla Palmer) sono le più famose, ma ne sono nate a centinaia. Alcune anche in Italia: Kapipal, ideata da Alberto Falossi, ma anche Eppela, Shinynote, Boomstarter, Starteed, BuonaCausa. Il primato di anzianità è detenuto nella penisola da Produzioni dal Basso, piattaforma fondata dal milanese Angelo Rindone nel 2005.

«Inizialmente Produzioni dal Basso era nata come un progetto dedicato alla musica», racconta oggi Rindone a Linkiesta.it. «Nel 2004 volevo aprire un’etichetta discografica che stampasse artisti in vinile sotto licenza creative commons. Fu così che decisi di creare un sistema di autoproduzione collettiva. Poi dell’etichetta non se ne fece più nulla, ma in compenso quell’idea diede origine a Produzioni Dal Basso». La piattaforma sta vivendo, negli ultimi mesi, un vero e proprio boom, con circa 11mila utenti registrati a partire dallo scorso settembre. Oggi sono sempre di più i progetti legati alla musica: «Fino a qualche mese fa venivano proposti soprattutto film, documentari e cortometraggi, tanto che Pdb era vista più che altro come piattaforma per filmmaker. Ora, però, sia i progetti editoriali che quelli musicali stanno crescendo parecchio», spiega Rindone.

Su Produzioni dal Basso i progetti musicali rappresentano, oggi, circa un terzo di quelli totali. Tra gli ultimi finanziati, un album celebrativo dell’etichetta jazz El Gallo Rojo (per cui sono stati raccolti 3.000 euro), l’ep acustico del quintetto Karmamoi (1.000 euro) e il triplo cofanetto della band veneta La Ghenga Fuoriposto (3.000 euro). La formula adottata è sempre quella: per ogni quota acquistata (che varia, nei casi sopra citati, da 1 a 15 euro) si riceve una copia del cd, che viene spedito a casa del crowdfunder una volta terminata con successo la raccolta fondi. In altri progetti il sistema è più articolato. Amanda Palmer, ad esempio, ha inserito dei bonus legati al numero di quote comprate o, in generale, alla cifra versata: 1 euro per il digital download, 25 per il cd in versione deluxe, 50 per il vinile, 125 per l’art-book autografato e così via, a salire. Fino all’ultimo estremo: diecimila euro valgono una serata con Amanda in carne, ossa, ukulele, birre e pennelli (la cantante ha promesso di ritrarre personalmente su tela il generoso sottoscrittore). Ben due persone hanno scelto quest’ultima, costosissima opzione.

Alla base di ogni progetto di successo c’è, senza dubbio, il rapporto tra l’artista ed il fan. L’ex Dresden Dolls insegna: prima di tentare la via del crowdfunding, la cantante americana poteva già fregiarsi del titolo di «regina dei social media» (copyright: Huffington Post), potendo vantare 144mila fan su Facebook e 560mila follower su Twitter, oltre ad un seguitissimo blog. «Amanda Palmer ha dieci anni di carriera alle spalle, molti dei quali sotto un’etichetta storica come la Roadrunner. Se avesse proposto la stessa iniziativa dieci anni fa, posto che allora ci fossero stati i mezzi per farlo, il risultato sarebbe stato ben diverso», spiega Francesco Caprai, direttore del magazine Musica Rovinata. La sua situazione è diversa da quella di un artista emergente qualsiasi: «Chi tenta la via del crowdfunding non può esimersi dall’aver dietro delle strutture che gli permettano di raggiungere le persone», analizza Caprai. «Del resto, il rapporto diretto con i fan è la chiave per sopravvivere in un’industria fonografica allo sbando. Ne sono esempio lampante i social network. Se ci fermiamo a riflettere, il meccanismo di un sito come Kickstarter non è poi così diverso da Facebook o Twitter: tutti vengono sfruttati dall’artista per far sentire il fan partecipe di un progetto».

Prima di Amanda Palmer c’era Julia Nunes, giovane cantante diventata social star grazie alle video-esibizioni caricate su Youtube, in cui proponeva sia cover che pezzi originali. Nel 2011, Julia decise di chiedere ai propri supporter un aiuto concreto per incidere il suo quarto album solista: la risposta fu eccezionale, con 77.888 dollari raccolti in poche settimane. Un record frantumato pochi giorni fa dalla Palmer, che con il suo milione di dollari non riuscirà a pagare solamente il disco ed un ambizioso art-book cui hanno collaborato trenta amici artisti, ma probabilmente anche tutti gli album a venire. L’Economist ha definito provocatoriamente il successo di AFP «busking for millions», paragonando cioè la raccolta fondi fatta via web a quella del musicista di strada (busker). «In realtà, nel busking è l’esatto opposto: paghi a conclusione di un’esibizione fatta da un’artista che non avevi mai conosciuto prima», è il parere di Francesco Caprai. «A conti fatti, hai pagato per un’esibizione che è già avvenuta. Con il crowdfunding è diverso: decidi di fare un investimento su un progetto. Prima paghi. Poi, dopo, avrai il tuo contenuto. E lo fai per un’artista che già segui, non credo ci siano molti pazzi che investirebbero i loro soldi su qualcuno che non hanno mai sentito nominare».

L’espansione del crowdfunding in ambito musicale ha le sue radici nella crisi dell’industria discografica. La minore disponibilità economica nel settore porta artisti – e non solo: anche etichette e festival – a tentare la strada del finanziamento dal basso rivolgendosi direttamente ai fan. «Dieci anni fa si pubblicavano più del doppio della quantità di dischi che si pubblicano oggi, e a soffrire di questa situazione sono soprattutto gli artisti emergenti», spiega Adrian Berwick, ex presidente di Bmg Ricordi, oggi titolare di Pecunia Entertainment e fondatore del portale Usong.it. «La crisi dell’industria musicale non ha solo ridotto gli investimenti, ma soprattutto li ha dirottati lontano dalla sperimentazione e del rischio. É questo il contesto in cui il funding di progetti alternativi da parte degli stessi consumatori diventa di grande aiuto a  sostenere ciò che non è mainstream. Qualsiasi investimento esterno è molto utile alla discografia visti i tempi che corrono. Già oggi sono molti gli artisti che si pagano i costi di registrazione dei loro dischi, collaborando poi con la casa discografica su tutti gli aspetti di sviluppo del loro progetto».

Il crowdfunding, dunque, non si pone come un’alternativa alle etichette, quanto piuttosto come uno strumento che può far comodo anche “all’altra parte della barricata”. «Per noi è un aiuto, non una minaccia», spiega Mirko Spino dell’etichetta indipendente Wallace Records. «Ci permette non solo di rendere possibile la realizzazione di un disco, ma spesso anche di poterlo pubblicare in un formato più prezioso e costoso, in vinile per esempio». Il crowdfunding è qualcosa di simile alla co-produzione, il sistema per cui più etichette distinte collaborano nella pubblicazione di un singolo disco. «Le case discografiche che si possono permettere le pubblicazioni come si faceva un tempo sono in netta diminuzione, e spesso si associano per produrre un gruppo. Io stesso ho partecipato a produzioni con anche una decina di etichette, ognuno mette quello che può in termini di denaro e si porta a casa il corrispettivo in copie. Questo funziona già da tempo nel mondo underground», spiega Spino. «L’aspetto maggiormente positivo di tutto questo è dovuto al fatto che ogni etichetta ha la sua nicchia di pubblico, che sia geografica o di genere, e due etichette insieme possono raddoppiare il pubblico a cui fare arrivare un disco. Questo è un vantaggio se l’obiettivo dell’etichetta è quello di far conoscere la musica del proprio catalogo». Le etichette stanno quindi cominciando ad appoggiarsi al crowdfunding come strumento compensativo della loro attività: è quello che sta facendo in questi giorni la Niegazowana Records, con la sua raccolta per far stampare i due dischi di Edda in vinile. Secondo Francesco Caprai di Musica Rovinata «solo il tempo ci dirà se questa strada è effettivamente percorribile o meno, oppure se parliamo solo di qualche episodio sporadico». 

Il crowdfunding, quindi, potrebbe influire pesantemente sul futuro dell’industria musicale indipendente. Non soltanto per quello che riguarda gli album, ma anche per quello che riguarda i festival: Jazzontheroad 2012, tanto per fare un esempio. In realtà, molto dipenderà da come in futuro i social network sapranno integrarsi con le piattaforme di crowdfunding (e viceversa). Carly Carioli, giornalista musicale del Boston Pheonix, non ha dubbi: secondo lei, la campagna di Amanda Palmer sarà «una pietra miliare» nella storia dell’industria musicale. La cantante americana lo aveva candidamente annunciato già nel video di presentazione del suo progetto: “This is the future of music”. Ora ha un milione e duecentomila buoni motivi in più per esserne convinta: noi, invece, staremo a vedere che cosa succederà.

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