Ci vogliamo tenere Lombardo o stiamo con la Merkel?

Ci vogliamo tenere Lombardo o stiamo con la Merkel?

Ci sono degli aspetti che colpiscono nelle critiche italiane alla cattiveria dei tedeschi che non vogliono pagare per noi. Abbiamo passato vent’anni con il Nord del Paese che, a torto o ragione, ha puntato i piedi per non pagare soldi a fondo perduto per un Mezzogiorno accusato di ruberie, corruzione, clienteralismi vari, ma, ora che sono i tedeschi a puntare i piedi, dalle Alpi a Lampedusa ci uniamo in un coro che, se va bene, li accusa di egoismo, se va male, di nazismo. 

Chi vive fra Lombardia e Veneto, le due regioni che se fossero da sole avrebbero il Pil pro capite del Lussemburgo, fa davvero cosi fatica a capire la ritrosia di Berlino? La narrativa del malessere del Nord non  può aiutare a capire il mal di pancia di Herr Müller? Possiamo ovviamente solo bollare tutti questi discorsi come “leghismo” ma poi, a Nord come a Sud, davvero tutti gli italiani sono pronti a pagare per i quasi 20 mila dipendenti assunti da Lombardo in Sicilia? O per i camminatori stipendiati per portare le pratiche da un ufficio all’altro? Se la risposta è negativa, fate ancora così fatica a capire la riottosità germanica? Il problema che pone il Nord Italia nella redistribuzione della propria ricchezza, e, più in generale, il problema che pongono gli sperperi della Sicilia e di altre regioni, non sono analoghi a quelli che pone la Cancelliera?

Il nostro debito pubblico, fatto in gran parte di corruzione, ruberie, clientelarismi, furbizie e inciuci, è più made in Italy di una borsa di Prada. Tutti i nostri governi, chi più chi meno, vi hanno contribuito e per questo una class action contro Berlusconi, come proposto da alcuni nella sinistra radicale, non ha senso. Come era perfettamente prevedibile, ha governato malissimo, ma questi quasi 2000 miliardi di problemi non li ha creati lui. Il nostro caso è diverso da quello dell’Islanda che ha portato alla sbarra banchieri e governanti. Quello che ci chiedono i tedeschi, visto che devono pagare loro, è di essere accountable, responsabili. Come farebbe un padre che non impresta i soldi alla figlia per andare alle Maldive ma solo per studiare. Ci aiuteranno se dimostriamo di essere responsabili, se ci rendiamo conto che il lavoro di Monti, pur con tutti suoi limiti, va sostenuto. Ma per essere davvero tali, come diceva Rimbaud, «il faut être absolument moderne», bisogna essere moderni, che in questo caso significa avere una moderna ed efficiente struttura produttiva e una moderna ed efficiente macchina pubblica, che non sia un buco nero che inghiotte risorse a gogò. E qui viene il secondo problema. 

Dopo l’Unità d’Italia, il ministro delle finanze Quintino Sella chiamò il barone Haussmann, l’architetto che trasformò Parigi in una metropoli. I boulevard (le “bolle verdi” visto che si tratta di viali alberati) nacquero con lui. Sella chiese a Haussmann di ripetere la stessa operazione di ammodernamento su Roma. Dopo un lungo lavoro, Haussmann presentò il suo progetto che anche qui prevedeva alcune demolizioni oltre alla costruzione di nuove direttrici di traffico. Ma, secondo alcune cronache,  dopo la presentazione del progetto, gli avrebbe detto: «in realtà qui nella città eterna non posso spostare, demolire, costruire come ho fatto a Parigi. Bisognerebbe costruire una Roma Due con gli uffici dei ministeri. Sventrare e rifare qua sarebbe un peccato». La vicenda viene raccontata in diverse maniere, ma ad ogni modo le casse dello Stato erano esangui dopo la riunificazione e quindi ci pensò poi Mussolini ad attuare alcune delle proposte del barone francese. Rendere Roma una moderna capitale, con grandi arterie come a Berlino o Parigi, o con una rete efficiente di metropoitane e trasporti pubblici, si è fin qui rivelato più difficile che far passare un cammello per la cruna dell’ago.

Ora, come abbiamo raccontato nei giorni scorsi, basta guardare quanto accaduto a Parma con il locale giornale degli industriali che assieme a Repubblica hanno accusato l’assessore all’urbanistica scelto dal neo sindaco perché gli era fallita un’impresa (da sottolineare: non in maniera fraudolenta), trattando il fallito come un deliquente, per rendersi conto dei problemi che abbiamo da queste parti con l’idea di modernità. In California si organizza ogni anno una “Failed Conference” dove, chi ha fallito, racconta agli altri i propri errori per aiutarli ad evitarli. Fallire, vale a dire avere provato a creare ricchezza senza esserci riusciti. Provare vuol dire rischiare, ma sbagliare per noi equivale ad essere un paria. Dato questo, proviamo a immaginare cosa sia sviluppare una propria impresa in una cultura per cui è meglio non tentarci neanche piuttosto che rischiare le stimmate del fallimento. In Nuova Zelanda pur di avere nuove imprese, hanno introdotto una legge secondo cui si ottiene la nazionalità immediata se si dimostra che si è messo in piedi un’attività «beneficial to the country»: basta in pratica avviare una gelateria. In Italia, se apri un’impresa, paghi imposte prima ancora di aver fatto un profitto. Il nanismo delle nostre aziende è anche perché sono come le erbe che crescono a fianco dei marciapiedi, riescono a crescere solo nelle crepe di un sistema culturale che fa di tutto per scoraggiarle. 

Oppure basta vedere cosa è successo alla Fornero per avere detto che il lavoro non è un diritto. Ha dovuto fare retromarcia dopo le critiche. Fra cui quelle di uno come Paolo Ferrero che sostiene che non deve essere il lavoratore a cercare il lavoro, e quindi a spostarsi là dove lo trova, ma il contrario, deve essere il lavoro a venire a casa tua. Come ha spiegato sulle nostre colonne Andrea Mariuzzo «mai il diritto al lavoro è stato concepito e formalizzato come diritto al posto di lavoro che si occupa in un certo momento: ed è proprio questo che invece il ministro Fornero contesta con le sue parole. Con l’assunzione a un posto di lavoro, pubblico o privato, non si acquisice il diritto allo stipendio a vita indipendentemente dal proprio effettivo contributo produttivo: idealmente, e anche a livello reale per quanto possibile, la propria permanenza in un posto di lavoro deve essere confermata giorno dopo giorno, attraverso la dimostrazione che si possono svolgere le proprie mansioni meglio di chiunque altro non abbia quel lavoro ma lo voglia avere». Del resto, proviamo a girarla in positivo. Se ora, con questo Stato e con questo tipo di sistema culturale che fa così tanta fatica a trovare un accordo con il tempo in cui vive, siamo l’ottava potenza industriale, cosa diventiamo se riusciamo a cambiare anche solo in parte la nostra mentalità?  

Quindi lasciamo perdere che, come ricordava ai microfoni di Radio 24 Esther Faia della Goethe University di Francoforte, «i governi che  chiedono Eurobond non hanno mai definito un piano in questo senso. […] Al contrario la Germania l’ha fatto e il piano dei cinque saggi sugli Eurobond è considerato molto buono». Lasciamo perdere tutte le nostre proiezioni sui tedeschi e la loro presunta cattiveria. Se Roma non è mai diventata una moderna capitale non è colpa del barone Haussmann.  

Twitter: @jacopobarigazzi

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