(In occasione dell’assegnazione del Premio Nobel all’Europa, ripubblichiamo un editoriale dello scorso giugno. Allora, nel pieno di una crisi finanziaria che non sembrava gestita, ci interrogavamo sul senso profondo di un’entità politica che sembra parlare una lingua solo contabile. Riflessioni che riproponiamo, oggi, pensando al premio Nobel)
L’Europa. Rieccola. Sono settimane, mesi, che in realtà è di lei e del suo destino che si parla. E tutte le volte ce la troviamo lì, dove l’avevamo lasciata: sopra di noi, lontana quanto basta da non capire chi è ma prossima quanto serve per farci sentire, sul capo, qualcosa che ci ricorda una mannaia.
Chi scrive queste righe, appartiene a una generazione che da sempre ha sentito parlare di Europa, e l’ha immaginata come una casa. A partire dalle immagini della caduta del muro di Berlino per arrivare, dodici anni dopo, ad avere in tasca i primi euro, abbiamo fatto collezione di eventi simbolici e svolte epocali: tutte nel segno dell’Europa e del nostro essere (o dover diventare) europei.
E oggi, tutti i cittadini europei che sentono di avere nel futuro molto ancora da fare, da dire, e da dare, si ritrovano a guardare interrogativi e timorosi lassù, alle dodici stelline del cielo europeo, e a non sapere bene che farsene. Anche noi, che crediamo alla tecnica e le scienze economiche e monetarie, al mercato europeo come a uno spazio in cui chi è bravo deve farcela, ci troviamo silenziosi e un po’ spiazzati dall’Europa delle burcorazie e delle tecnocrazie, a quei leader politici europei che si comportano da ragionieri: ora tutti attenti ai numeri che gli forniscono i loro consulenti, ora a quelli ansiogeni dei sondaggisti che misurano il loro consenso interno. La signora Merkel è la capofila di questo plotone, ma certo non è sola.
Nel mentre arrivavamo sull’orlo del baratro che oggi all’unisono il Fondo monetario internazionali e gli operatori finanziari globali più aggressivi indicano, l’Europa è diventata una formidabile produttrice di burocrazie e di burocrati custodi di regole e cavilli. Per carità, niente che noi italiani non conoscessimo già bene, ma ricorderete tutti che – quando l’Europa ci fu venduta – gli europeisti italiani ci promettevano che con tedeschi e francesi alla guida – a Bruxelles, a Strasburgo, a Francoforte – sarebbe stato tutto diverso. Lineare, efficiente, ordinato, risparmioso sui costi e concentrato sugli obiettivi politici ed economici. Niente di tutto questo è avvenuto.
Per difendere e riaffermare il proprio potere burocratico, la casta europea, si avvale con certa scioltezza degli strumenti di marketing, di abili linguaggi pubblicitari, di una convegnistica diffusa e pletorica che ha budget sicuramente più elevati della capacità reale di produrre una cultura europea. Il marketing poi, come si sa, è uno strumento mirabile – se ben usato – per nascondere la carenza di politiche e di risultati: vale in finanza ed economia, come in politica.
E sempre per parlare di missioni tradite o del tutto mancate, difficile non notare come proprio mentre si formava e affermava come istituzione, proprio quando la spinta propulsiva doveva essere la più forte, la nostra Europa si è persa per strada che il mondo là fuori cambiava. All’11 settembre assistevamo come spettatori inerti di uno spettacolo in cinemascope. Alle guerre che lo seguirono ci accodammo con tanti distinguo e poco profitto.
Quando arrivo la marea della crisi finanziaria made in Usa, prima ci difendemmo con sicurezze da slogan sul fatto che non sarebbero arrivati contagi all’economia reale e al tessuto produttivo. Poi, pur essendo specializzati in tecniche e bilanci, non riuscimmo mai a stabilire una strategia comune, che del resto è solo e sempre compito della politica, nei sistemi democratici che l’Europa ha la missione fondativa di difendere e promuovere. Il contagio arrivò agli stati, poi, a partire dai più fragili: e un’Europa che non aveva saputo o voluto guardare davvero dentro ai conti della Grecia, perse altro tempo invece di tamponare subito e con decisione una falla. E a proposito di pulsioni democratiche, quelle che esplodevano nel nostro mare europeo, il Mediterraneo, non lo sapevamo, non lo conoscevamo, non ce le aspettavamo. Tanti bei convegni sull’area euro-mediterranea, e poi quando i nostri vicini arabi si ribellano a satrapie medioevali siamo giusto capaci di mandare qualche caccia e un po’ di contractor a garanzia di faticosi investimenti energetici, senza avere un’idea da perseguire su quella che resta – real politik alla mano – un’area sulla quale avere influenza economico-politica, nel prossimo futuro, potrebbe costruire fortuna e benessere per qualche generazione, in Europa.
E invece finisce che i cinesi, che hanno scoperto l’Africa molto dopo di noi ma sono riusciti ad arrivarci prima, hanno un posto in prima fila. Perdendo sicuramente qualche passaggio, siamo arrivati all’oggi.
A questo punto, il dipanarsi della nostra breve storia di europei ci obbliga a una domanda: vogliamo ancora l’Europa o no? Cosa siamo pronti a fare per riprenderci un ruolo, come cittadini, di fronte a una casa comune? E come italiani, cosa vogliamo chiedere a una classe dirigente che con l’Europa ha una relazione intensa, ma dell’Europa sembra purtroppo rivelare il volto più ceruleo e inespressivo, proprio quello dei tecnocratici, e senza una vera visione politica su domani e su dopo?
Sono domande che si possono legittimamente descrivere come vana retorica, o essere prese come un’occasione per uno sconforto. Ma restano essenziali per ricordare, a tutti noi, che la scelta europea era e resta una scelta di valori superiori, di tensioni ideali che non possono essere buttati via in ragione di fatiche tecniche che, peraltro, nessuno si è mai premurato di spiegare in modo comprensibile ai cittadini europei. Si dirà: ci vorrebbe una leadership del tutto latitante per ridare una rotta a questa Europa. Può darsi. Ma si può anche dire che la spinta può e deve solo, dato il contesto, ripartire dal basso, da cittadini-elettori cui è doveroso dire che senza Europa sarebbe molto peggio per tutti: tedeschi compresi. Noi, nel nostro piccolo, partiamo da noi stessi e pensiamo che, in definitiva, un’altra Europa è possibile e lavoriamo per una politica capace di costruirla.
(prima pubblicazione, giugno 2012)