Banche, moneta, potereGli intellettuali tedeschi volevano l’Europa quando gli serviva, ora la scaricano

Gli intellettuali tedeschi volevano l’Europa quando gli serviva, ora la scaricano

Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri tedesco, nella recente intervista rilasciata a Paolo Valentino inviato del Corriere della Sera ha usato parole pesanti e si è dimostrato molto preoccupato per la situazione dell’Unione Monetaria Europea: «Per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l’ordine europeo. Poi ha convinto l’Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando pienamente l’integrazione d’Europa, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione. Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo».

La crisi dell’area euro è arrivata ad un punto nevralgico. I timori sulla sopravvivenza della moneta unica sono sempre più diffusi negli investitori internazionali. Era evidente che gli interventi della BCE di Draghi, l’abbassamento dei tassi e il piano LTRO con il quale ha prestato grande liquidità alle banche europee, non fossero il tanto atteso “game changer”, ma servissero solo a prendere tempo e ad evitare che il sistema bancario saltasse. Oggi si ripropongono i problemi e le tensioni di inizio anno. Siamo sicuri che ancora una volta Draghi interverrà ma la “risposta” alla crisi deve essere politica. Perché le radici della crisi sono politiche. Ma questa risposta forte, purtroppo, non si vede.

Nel mondo tedesco il consenso è ancora forte sulle politiche di austerità (“the economics of austerity” come con enfasi sottolineano certi economisti vicini alle posizioni della Bundesbank). I media germanici mettono in risalto come la Merkel, pur avendo perso numerose elezioni regionali e locali, sia ancora saldamente in vetta nei sondaggi nazionali.

C’è un libro che può descrivere, pur con le dovute differenze storiche, quanto è successo (e sta succedendo) in Europa negli ultimi anni. E’ un libro che ha più di ottant’anni ma è uno dei grandi testi del Novecento che ha provocato profondi e infuocati dibattiti. Nel 1927, mentre ancora si contavano le macerie e i milioni di morti della prima guerra mondiale, Julien Bendà, uno scrittore francese, pubblica “La Trahison des clercs”, il tradimento dei chierici da intendere come tradimento degli intellettuali. Il libro di Bendà affonda le sue radici nell’ “Affaire Dreyfus” di fine Ottocento e nel forte j’accuse di Émile Zola: ne conserva la carica simbolica, ne conserva la forte valenza di “scelta di campo”. Tra le due guerre Bendà si scaglia contro i vari Barrès, Brunetière, D’Annunzio, Lemaitre, Kipling, Maurras, Péguy: egli vedeva già nella “furia di irrazionalismo” i nefasti segnali per lo scoppio di un secondo devastante conflitto mondiale. Contro i pericoli di nuove guerre, di nuove tragedie Bendà auspicava la costruzione di una Europa Unita: nel 1933 pubblica il suo “Discours à la Nation Européenne”. Nessuna chiusura nelle torri d’avorio, nessuna “neutralità” è possibile per gli intellettuali sosterrà Bendà nel 1934 a Madrid accanto a Pablo Neruda, Rafael Alberti, Ernest Hemingway, Andrè Malraux ed altri.

Oggi, più che l’irrazionalismo, è il dogma dell’austerità quello che sta minacciando le fondamenta europee. E analizzando il consenso intorno a questo dogma viene da chiedersi se lo schema interpretativo del “tradimento dei chierici ” non sia ancora valido. Se questo schema non sia utile, ad esempio, per decifrare comportamenti e prese di posizioni delle élites politiche ed economiche del mondo tedesco e non solo. Sicuramente le suggestioni interpretative non mancano, anche di fronte alle minacce (di antico sapore) che si aggirano nell’Europa sempre più dilaniata dalla recessione: il populismo e il nazionalismo, pericoli che già avvertiva, seppur in tempi diversi, Julien Bendà.

«La nascita dell’euro è l’evento del secolo» affermò Helmut Kohl nel 1998 davanti al Bundestag. Quanti nel mondo tedesco ricordano questa affermazione? E qual è la Weltanschauung della cancelliera Merkel? Sembra solo orientata agli interessi di breve periodo, a soddisfare gli umori dell’elettorato tedesco. Non c’è più nelle cancellerie europee lo spirito dei Padri Fondatori, di Schuman, Adenauer, De Gasperi e poi Monnet, Spinelli ecc. Non ci sono più al centro dello scacchiere politico i Kohl e i Mitterand. Sembra svanito il ricordo delle tragedie del Novecento. C’è un’“apostasia” del credo europeo? E’ innegabile che gli interessi e i calcoli di breve periodo hanno preso il sopravvento sui “grandi progetti”.

Troppe voci, in particolare nel mondo tedesco, sono rimaste silenziose. Altre sono state tiepide. Altre hanno osannato l’ortodossia della cancelliera Merkel e della Bundesbank. La Germania di oggi si dimostra senza debiti con il passato, senza rimorsi ed adotta «una linea di condotta …prudentemente cinica» come dice Giuliano Amato. Posizioni simili si trovano in Olanda e in Austria. Anche in Francia con l’asse Merkel-Sarkozy vi era stato un appiattimento sulle posizioni tedesche, in particolare nel suo establishment economico-finanziario: la Francia, agli inizi della crisi, pur avendo banche fortemente esposte nei confronti della Grecia, considerava immune dal rischio contagio il suo debito pubblico e la sua luccicante tripla A (da pochi mesi persa). E poi si pensi agli errori compiuti negli ultimi anni da Trichet, massima espressione dell’establishment di raccordo franco-tedesco.

Si poteva intervenire sulla Grecia molto prima, con costi minori. Invece si è voluto creare “l’esempio punitivo” da dare in pasto all’opinione pubblica tedesca. Ma, accanto ad un Grecia ridotta sul lastrico, il risultato più eclatante è un forte aumento della disoccupazione nell’Europa. E si sottovalutano gli effetti di lungo periodo dell’elevata disoccupazione.

Per comprendere l’ortodossia si prenda l’intervista al Wall Street Journal, pubblicata lo scorso 24 aprile, di Jens Weidmann presidente della Deutsche Bundesbank e membro del Consiglio della BCE. Intervista importante perché è un messaggio diretto alla comunità finanziaria internazionale. La preoccupazione di Weidmann è una sola: la stabilità dei prezzi. A chi chiede un ampliamento di poteri per la Bce risponde che vi è una “misperception”, sottolineando come l’Europa non sia uno Stato confederale ma una unione di 17 Paesi indipendenti. La BCE è stata modellata dopo la Bundesbank, quindi è in linea con la sua missione e la sua tradizione («Since we didn’t change the rules, I’d still say the ECB is modeled after the Bundesbank»). La visione di Weidmann è prettamente nazionale, l’orizzonte di riferimento è solo quello dell’economia tedesca, della quale si evidenza la forza e il buono stato di salute. Alle dichiarazione del presidente della Bundesbank basta aggiungere quelle di Juergen Stark oppure è sufficiente guardare i titoli della Bild sulla situazione greca per comprendere la forza e il consenso sul “dogma dell’austerità” nel mondo tedesco. Molti di quegli intellettuali e di quegli economisti (di quei “chierici” insomma) che magnificavano le sorti dell’Unione Europea come soluzione ai mali del Novecento, che cercavano il consenso internazionale quando si trattava di procedere all’unificazione tedesca, oggi tacciano o sono allineati alle politiche di austerità. E’ difficile non pensare che si sia consumato un nuovo “tradimento”.

Siamo, dunque, di fronte ad un requiem dell’euro, come afferma Casertano su Linkiesta? O si può ancora invertire la rotta, bloccare gli attacchi speculativi, recuperare la fiducia degli investitori internazionali e, soprattutto, recuperare nelle popolazioni europee un forte consenso sulla moneta unica?
Nel recente ed interessante libro di Degli Esposti, Giacomin, Righi “Conversazione con Romano Prodi e Jacques Delors. Dieci anni con l’euro in tasca”, Delors afferma: «ritenevo indispensabile che ci fosse un equilibrio fra l’Europa della moneta e quella dell’economia e l’Europa del sociale.(…) Sono sicuro che se avessimo raggiunto questo equilibrio tra politica economica e governo della moneta, avremmo raggiunto risultati migliori, avremmo visto arrivare la grande crisi di questi anni e avremmo scoperto per tempo quello che si sarebbe rilevato il tallone d’Achille d’Europa…». È questa la grande sfida dell’euro. La risposta non può essere solo il classico tampone, il rimedio di breve periodo. E non bastano – seppur necessari ed urgenti – gli eurobonds o l’ampliamento del mandato della BCE. Ci deve essere un grande salto di qualità nella risposta politica. Un nuovo patto economico e sociale. Inserendo ad esempio tra i paletti della nuova Europa anche due criteri – due“impegni” molto cari a Delors – come la disoccupazione di lunga durata e la disoccupazione dei giovani.

«Viviamo nel periodo della paura. Ma dalla Storia non si può scappare. Non è che la Storia si possa fermare, la si può solo sospendere, rallentare» afferma con coraggio Romano Prodi. Questa convinzione, questa forza – comune a Prodi, a Delors, al Gruppo Spinelli ecc. – ci piacerebbe diventasse il pensiero e l’azione delle classi dirigenti europee. Diventasse il perno su cui fondare il rafforzamento dell’architettura europea. Ma all’orizzonte si affacciano nere nubi e molti “chierici” hanno voci flebili oppure accomodanti ed altri continuano a nascondere la testa nella sabbia.

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