Immaginiamo che al posto di Angela Merkel ci fosse Margaret Thatcher, nella versione vintage del 1984/85, quella dei minatori. Immaginiamo che la Thatcher, cancelliere tedesco, riceva in visita Monti, Hollande e Rajoy, che le chiedano di convincere la Germania a farsi carico di parte degli altri debiti sovrani europei. Immaginiamo a questo punto la risposta della Thatcher, e soprattutto la sua espressione facciale. Quest’ultimo punto potrebbe essere il più facile: chioserebbe l’incontro con uno dei suoi fantastici aneddoti. Potrebbe dire qualcosa tipo: «la Germania non deve salvare nessun paese, che non sia la Germania stessa».
L’esercizio di immaginare la Thatcher al posto di Angela Merkel sta diventando ogni giorno più semplice, proprio perché è in questi mesi che sta emergendo il carattere testardo e risoluto dello straordinario animale politico di stanza a Berlino. Se Margaret Thatcher ha rappresentato l’aspetto pratico del liberalismo economico, Angela Merkel incarna il nuovo protagonismo della politica nell’economia. È un compito che richiede adeguate dosi di nervi saldi e narcisismo dottrinale: un po’ lo stesso spirito che ha guidato la Thatcher. Presto la Merkel guadagnerà un soprannome degno della fama: se a Thatcher è la “Lady di Ferro”, Angela si candida a diventare “Lady d’Acciaio”. Perché un conto è resistere alle pressioni dell’unione sindacale dei minatori britannici, e un altro è quello di affrontare la “pressione congiunta” dei governi sovrani europei. Nel primo caso, il massimo che poteva capitare era beccarsi un filmetto critico di Ken Loach. Adesso la questione riguarda il benessere di 332 milioni di persone.
Dal punto di vista italiano, francese, spagnolo e greco, il punto di vista sulla Germania è infatti chiaro e condiviso. Berlino si trova alla fortunata cima di una piramide gerarchico-monetaria chiamata “euro”, che consente di ammirare un bel panorama, con l’effetto collaterale di schiacciare chi sta sotto. Il punto di vista tedesco è diverso: gli altri paesi europei cercano di approfittare del successo della Germania. Per proseguire nel parallelismo, è come quando la Thatcher commentò «there is no such thing as the society», quando replicava alle critiche verso i suoi piani di privatizzazione.
Angela vuole evitare di fare del Sud Europa un enorme mezzogiorno continentale, e per questo si oppone agli Eurobond. È una strategia già vista anche per l’integrazione economica dell’ex-Germania Est: ai consistenti piani di aiuto, veicolati dai governi precedenti (Kohl e Schröder), hanno fatto da contraltare robusti piani di riforma. Se l’Est protestava, la base elettorale dell’Ovest sosteneva il governo nel reputare gli ex-socialisti (per quanto coatti) dei “lamentosi”. Alla fine, la cura ha funzionato: gli stipendi orientali si sono avvicinati a quelli dell’ex-Rft.
Il punto essenziale che divide la Germania dall’Europa è chiaro: se Berlino dà, deve avere qualcosa in cambio. Il discorso del vantaggio tedesco grazie all’euro è vero e verificato, ma se la Germania si trova in una posizione di preminenza, è perché se l’è guadagnato. Adesso pretende che anche gli altri paesi europei s’impegnino in riforme lacrime e sangue, come la Germania ha fatto a partire da una decina di anni fa. Per ora ha ottenuto impegni più o meno seri di pareggio di bilancio (dopo più di due anni di pressione), ma non ha alcuna garanzia sulla tenuta di eventuali coalizioni di governo riformiste nelle maggiori economie.
Come dar torto a Frau Merkel? In Grecia sono state necessarie due elezioni per creare un governo, ma al vertice che deciderà il futuro dell’euro non parteciperanno né il primo ministro, né il ministro delle finanze – e sembra che la Grecia abbia beffato l’Fmi con l’assunzione surrettizia da parte dello stato di circa 70.000 persone, come avrebbe fatto un Salvatore Cuffaro qualunque. In Italia girano voci insistenti sulle possibili dimissioni di Monti a fine luglio, con un premier già protagonista di riforme monche (le voci sono arrivate anche all’estero), incalzato da uno strano attaché da operetta ungherese che vuole uscire dall’euro e fare il ministro delle Finanze. In Spagna – e verrebbe da dire “finalmente” – è saltato il tappo della pentola in cui cuoceva la patata bollente del sistema bancario indebitato. In Francia, paese ormai preda del radicalismo decrescista, il nuovo premier ha pensato bene di portare l’età pensionabile a sessant’anni (anche se solo per una fascia ristretta dei lavoratori), in un paese in cui l’aspettativa di vita attuale è di 81 anni.
Quella che è stata definita “crisi del debito europeo” è in realtà una crisi bancaria accompagnata da una crisi nella bilancia dei pagamenti. Il primo problema si realizza per i tedeschi in una precarietà del sistema bancario locale, che rischia di perdere i crediti vantati verso gli altri stati (si parlava all’inizio della crisi di circa 800 miliardi di euro da stornare, pari a circa un terzo del totale del Pil della Germania). A questo si lega uno sbilanciamento assoluto nella situazione competitiva, che spinge la Germania a record nelle esportazioni, mentre gli altri paesi latitano.
Per questo motivo, la Germania è al centro del problema ed è la chiave per la soluzione. Ha realizzato che la posizione di preminenza, per quanto meritata, non è sostenibile. Nel paese che ha inventato la Realpolitik (termine coniato da Ludwig von Ruchau, ma anche Kissinger è di famiglia tedesca), non ci dobbiamo stupire se il governo trascura i sentimenti per guardare oltre la contingenza. Sa che anche se accettasse un sacrificio nazionale per il bene altrui, si arriverà a risultati positivi solo se gli altri paesi avviano riforme competitive decenti. Angela Merkel non si fa illusioni. La sua “testardaggine” è una risposta candidamente razionale alle renitenze altrui. Alla fine, la Germania avrà le colpe che ha, ma anche noi non stiamo aiutando la Germania ad aiutarci.