Scriveva l’Economist qualche settimana fa che la soluzione per l’Europa ha il sapore di una barzelletta: vale a dire che per uscire dalle secche il Vecchio Continente avrebbe bisogno di «serietà italiana e creatività tedesca». Se non si tratta di ossimori, poco ci manca. Ma questo è il punto a cui ci porta il felpato cambio di passo di Mario Monti al G20. La fase due non è solo la crescita. La fase due è anche fare capire ai nostri partner che “fare i compiti a casa” non basta ai mercati che continuano a punirci come fossimo la Spagna. Una mossa che non è ancora alzare bandiera bianca ma è dire che, se qualcosa non accade, e presto, allora sì che Atene è vicina. Tuttavia la risposta a Monti, come vedremo, è un gioco di specchi dove parliamo di Bruxelles per parlare di Roma. Non intesa come Monti, che la sua parte la sta anche facendo, ma intesa come un quadro politico votato al suicidio. E, notoriamente, non si presta soldi a chi si sta per suicidare.
L’articolo di oggi del Financial Times su Monti e l’Europa
Vediamo i fatti. Monti va al G20 e lancia un ballon d’essai. Utilizzare il fondo salvastati, che sia esso lo European Financial Stability Facility, o, tempistica permettendo, quello permanente, l’Esm, per acquistare obbligazioni dei paesi dell’eurozona i cui tassi di interesse salgono troppo. Ma sia chiaro, dice Monti, questa non è una richiesta di aiuto, nulla a che a che fare con Atene. Visto però che il salvadanaio dell’Esfs (o dell’Esm) può già intervenire sia sul mercato primario che su quello secondario, visto che per avere accesso a questi soldi bisogna fare una formale richiesta di aiuti a cui sono legate delle condizioni, e visto che non è che questo quello che, per ora, ha in mente il premier italiano, allora cosa sta chiedendo? Una risposta la fornisce Breaking Views di Hugo Dixon: «La proposta di Monti è più radicale. Sembra essere a favore di un meccanismo automatico dove i fondi intervengono a comprare bond ogni volta i rendimenti salgono sopra determinati livelli. Questo potrebbe persuadere gli investitori che non perderanno soldi nei debiti sovrani e aiutare il ritorno della fiducia sui bond spagnoli e quelli italiani».
A parte i problemi tecnici nei cambiamenti dei trattati e nella disponibilità dei fondi (400 milioni di euro) per cui la copertura sarebbe solo limitata, e quindi in parte inutile, la proposta italiana ha registrato un appoggio francese e un interesse spagnolo. La Commissione Ue l’ha bocciata («È un paracetamolo finanziario che attenua il malessere, ma non risolve le cause strutturali» ha detto il portavoce di Olli Rehn) mentre la Merkel ha fatto una delle sue sibilline aperture («non ci sono piani concreti, ma c’è la possibilità teorica che si comprino nel mercato secondario titoli di Stato nella cornice delle condizioni previste dal contratto dell’Efsf») che si è già in parte rimangiata.
Così mentre i virgolettati ufficiali ci davano un quadro non ancora definito ma in movimento, nei corridoi di Bruxelles un alto diplomatico tedesco era tranchant: «l’Italia dica cosa vuol fare, se vuole un aiuto, se vuole uscire dall’euro, faccia quello che vuole, ma faccia chiarezza». Nel frattempo a Roma fonti politiche confermavano tutta la preoccupazione di Monti per i costi del nostro rifinanziamento e sottolineavano la necessità di inventarsi soluzioni nuove. Ed ecco allora il punto.
In pratica quello che Monti sta dicendo è: più di così io non posso fare, i nostri soldi sono legati a mercati che, come ha ben spiegato il nobel israeliano Daniel Kahneman, sono tutt’altro che razionali: dopo una riforma delle pensioni e una del lavoro, con le nostre banche che non sono quelle spagnole, con un sistema industriale che non è quello greco, con una ricchezza privata che non è quella irlandese, se siamo ancora in queste condizioni è ora che si inizi a pensare di aiutarci, anche se, appunto, in forma diversa da quella di Atene, con un sostegno ai nostri tassi. Un allarme che viviamo tutti i giorni e che si sente forte nella comunità finanziaria milanese («molte aziende italiane hanno cassa solo per un anno ancora» diceva la settimana scorsa un alto dirigente di una banca straniera). Solo che mentre Monti ragiona di economia, in realtà i mercati stanno anche ragionando di sostenibilità politica e lo spread include anche questo elemento. Secondo il Fiscal monitor del Fondo Monetario i bisogni di rifanziamento per il l’italia nel 2012 sono equivalenti al 28,7% del Pil mentre la Spagna si ferma al 20,9%. Ma «in più – sottolinea Martin Wolf sul Financial Times di oggi – chi verrà dopo Monti, che lascierà l’anno prossimo, è un’enigma».
La tabella del Fiscal Monitor del Fondo Monetario sui fabbisogni dei governi
Ora, con la Merkel che fa capire di non aver apprezzato che la prima mossa di Hollande sia stata quella di abbassare le pensioni, anche se solo per un numero limitato di persone, proprio mentre si chiede a Berlino una mutualizzazione del debito. E con il nuovo inquilino dell’Eliseo (che non hai mai fatto manco il ministro), che incontra Sigmar Gabriel, presidente del Spd, proprio mentre a casa sua la Cancelliera si vede superare nei sondaggi dalla nuova stella dei socialdemocratici, la leader del Nordreno Vestfalia, Hannelore Kraft, dando l’impressione di volerle fare la guerra e acuendo la distanza fra le due capitali, l’umore cupo di Monti è facilmente spiegabile. Soprattutto perché è preso fra due fuochi: in Europa i leader spesso di detestano o si fanno la guerra e non solo Parigi e Berlino. Per rendersene conto basta guardare Cameron che invita i francesi a trasferire le proprie attività Oltremanica per sfuggire alla mannaia delle tasse che vogliono imporre i socialisti. Tutto ciò mentre in Italia i due partiti maggiori non raccolgono il 40% dei voti, mentre Berlusconi è tentato dalla svolta anti euro e mentre la credibilità del sistema è pari a zero. Prestare i soldi all’Italia in queste condizioni, con il prossimo parlamento che sembra scivolare ogni giorno di più verso l’ingovernabilità, è davvero dura.
Lo sanno bene Daron Acemoglu (economista del Mit) e James A. Robinson (di Harvard) che, come abbiamo scritto, hanno di recente pubblicato un libro (Why Nations Fail) dove spiegano che le nazioni falliscono quando le istituzioni sono “estrattive” ed elitarie, cioè quando «sono strutturate per estrarre risorse da molti per distribuirle a pochi, i diritti di proprietà non vengono protetti e gli incentivi per l’attività economica sono insufficienti». Insomma si fallisce per ragioni politiche più che per motivi economici. L’unica allora è iniziare a pensare a dei paletti che costringano anche chi verrà dopo Monti, chiunque verrà, a muoversi in un modo che i mercati possano credere di avere una prospettiva più lunga. Potrebbe essere questo lo scambio da fare per un intervento della Ue che faccia scendere i tassi. Ragionando per ora senza allarme, con calma e pacatezza. Perché se già è una barzelletta quella che può salvare l’Europa, a maggior ragione bisogna evitare che anche la nostra credibilità torni ad essere una barzelletta, che non farebbe ridere nessuno, tantomeno i nostri creditori.
Twitter: @jacopobarigazzi