Libertà e tecnica, per uscire dalla “grande contrazione”

Libertà e tecnica, per uscire dalla “grande contrazione”

Sul porsi domande

Nell’autunno del 2008 scoppia una gravissima crisi finanziaria. Le principali banche d’affari americane si trovano di colpo di fronte al baratro del fallimento. Durante settimane febbrili, il Tesoro americano decide di immettere settecento miliardi di dollari per fermare la spirale che, come in un gigantesco domino, avrebbe travolto l’intera economia globale.

L’azione ha successo, ma l’economia, dopo un accenno di ripresa, non riparte, almeno in Occidente. E così, nel 2011, la crisi si sposta sul lato pubblico, abbattendosi in particolare su un’Europa colpevole di avere una moneta unica senza un governo politico. Giocando sugli squilibri interni, la speculazione attacca i paesi più fragili, mettendo a rischio di nuovo l’economia mondiale. Alla fine dell’anno, la Bce decide di aprire una linea di credito per le banche europee di cinquecento miliardi di euro. Nell’anno successivo, l’intera Europa rischia di finire in recessione, con contraccolpi anche sulle altre aree del mondo. A più di tre anni dall’inizio della crisi, i problemi non sono ancora risolti, anche perché la prolungata instabilità provoca ciò che i mercati temono di più: una profonda crisi di fiducia. La crisi, da finanziaria, è sempre più reale: le imprese chiudono, i lavoratori perdono il lavoro, i giovani sono costretti a rimanere in panchina.

Di fronte a questi eventi così preoccupanti, le forze migliori in tutto il mondo si sono mobilitate, nella ricerca di una soluzione. C’è chi si dedica a spegnere l’incendio che ancora non è domato. E chi comincia a pensare alla nuova casa da costruire, una volta che il pericolo imminente sia stato scongiurato.

Il lavoro che qui segue si pone in questa seconda prospettiva. Sia il modo di interpellare la crisi sia il tipo di risposte che vengono prospettate non guardano tanto all’urgenza, ma alla direzione verso cui muoversi, in una prospettiva di medio-lungo termine.

I due temi che stanno al fondo di questo lavoro sono la libertà e la tecnica, nel quadro del mutamento sociale contemporaneo. Due temi profondamente intrecciati. Come ci suggerisce Heidegger: «La minaccia per l’uomo non viene innanzitutto dalle macchine e dagli apparati tecnici, che possono avere anche effetti mortali. La minaccia vera ha già raggiunto l’uomo nella sua essenza. Il dominio della imposizione minaccia fondando la possibilità che all’uomo possa essere negato di raccogliersi, ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principale». (Heidegger,1976: 21).

Il problema non è la tecnica di per se stessa, quanto il rapporto tra l’uomo e la tecnica, cioè la sua capacità di continuare a pensare in un modo non solo tecnico. Di fronte alla “teoria” – nel senso greco di “spettacolo” – della crisi, siamo sollecitati a cercare risposte. Se definiamo la crisi solo come “tecnica”, cercheremo risposte solo tecniche, secondo quanto suggerito da Heidegger.
Per questo, a contare sono le domande che ci facciamo. Comunque vadano le cose, le risposte che daremo dipenderanno da ciò che avremo cercato. Perché, dice ancora Heidegger, «domandare è la pietà del pensiero». Domandare, cioè, è fondamentalmente un atto di amore e di rispetto verso una realtà che non è semplicemente nelle nostre mani, ma che ci interpella profondamente (Arendt, 1991).

Posta sotto la chiave di lettura della relazione tra tecnica e libertà, la crisi appare sotto una luce particolare. Certo, i sistemi non hanno funzionato e non funzionano. E occorre agire per ristabilire il loro funzionamento.

E, tuttavia, qualunque azione in tal senso non basterà. Perché la crisi è anche culturale o, meglio, spirituale. Essa, cioè, ha a che fare con lo “spirito” che ha animato, in Occidente, la stagione storica alle nostre spalle, quella del capitalismo tecno-nichilista. Uno spirito profondamente individualista e neomaterialista che ha segnato la prima grande stagione storica nella quale la libertà è divenuta un’esperienza di massa.

Il libro si snoda attorno a tali questioni, partendo dalla premessa che la crisi non sia un fatto estemporaneo, ma effetto delle fragilità del modello di sviluppo che si è dispiegato a partire dagli anni ottanta.

Per questo, il primo capitolo riassume e sviluppa gli argomenti già affrontati in un precedente lavoro intitolato Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, di cui il presente testo prosegue la riflessione. La crisi rimane del tutto incomprensibile se non si parte da una interpretazione critica della fase storica che è alle nostre spalle.

A partire da questa premessa, si entrerà più direttamente nelle dinamiche della crisi che, anche nella sua fenomenologia, non è riducibile al suo aspetto meramente tecnico-finanziario. Oltre a questo primo focolaio, la crisi infatti brucia attorno al nodo dell’integrazione sociale – dove disuguaglianza e impoverimento hanno raggiunto livelli preoccupanti – e dell’energia psichica e ambientale – da cui un modello votato all’espansione quantitativa è dipendente.

La diagnosi che ne esce è certamente seria. Come è inevitabile che sia, se non si rinuncia a considerare la crisi nella sua ampiezza e portata. E se non ci si rifiuta di vedere che, al fondo, c’è un problema con la “libertà dei liberi”, con il suo immaginario e le sue pratiche sociali. Per questo la crisi c’entra con i fallimenti della libertà di massa. Fallimenti che evidentemente passano anche attraverso l’inadeguatezza di alcuni apparati tecnici. Tuttavia, la crisi non è né comprensibile né rimediabile senza considerare una radice più profonda.

Da qui, io credo, si deve ripartire. Interrogandosi, raccogliendosi – direbbe Heidegger – attorno a un disvelamento più originario, che riguarda la nostra condizione di esseri liberi. Ecco perché, per arrivare a parlare della crescita, occorre occuparsi di immaginario della libertà. Cioè delle sue premesse antropologiche, senza le quali nessuna crescita sarà, negli anni a venire, né possibile né sostenibile. Con buona pace dei tanti tecno-nichilisti che ancora spopolano.

È da qui, da un diverso modo di dire la libertà che può nascere una nuova stagione di crescita. Per questo nel libro, riprendendo l’espressione usata da Carmen Rheinart e Kenneth Rogoff (2010), parlo di “grande contrazione”: il ridimensionamento del carico debitorio che le economie dei paesi avanzati dovranno in qualche modo gestire nei prossimi anni non è solo una perdita, un passo indietro, ma anche, e soprattutto, un’occasione per fare un passo avanti nella storia della libertà. Prodromi di un parto che arrivi, nel giro di qualche anno, a far nascere un nuovo modello di sviluppo, capace di far tesoro di quello che la crisi ci insegna, i pesanti costi umani e i “sacrifici” necessari che occorrerà sobbarcarsi in questi anni potranno essere più agevolmente sostenuti. Un nuovo modello di sviluppo che la crisi, se letta in maniera opportuna, non solo sollecita, ma persino indica.

Su questa base anche nei paesi avanzati, che escono da questi trent’anni alquanto malconci, può sbocciare una nuova stagione di crescita. Pensare, come per lo più si sostiene, che il problema sia semplicemente riavviare il motore della macchina, significa sottovalutare gravemente il peso del “fattore umano”.

Se, come credo, tra qualche anno si tornerà a crescere, la crescita sarà di nuova generazione. Non una mera espansione quantitativa, ma una “eccedenza” qualitativa capace di mettere meglio a frutto la ricchezza principale di cui dispongono (potenzialmente, almeno) le democrazie avanzate. E, cioè, la ricchezza umana e spirituale che solo un mondo di liberi può sprigionare.

Ma, per far questo, occorre curare la radicalizzazione dell’individualismo di cui sono malate le società occidentali, attraverso il potenziamento di forme diffuse di socialità, di alleanza e di contribuzione. Non una mera assenza di limite, anticamera di ogni forma di delirio, ma realistica assunzione delle potenzialità e delle impossibilità presenti in una data situazione. Non chiusura nella più stretta contingenza moltiplicata e frammentata all’infinito, ma apertura alla capacità di trascendenza che anima il desiderio umano.

Per questo, non si tratta di tornare indietro, di ristabilire il “disordine istituito” che c’era prima della crisi. Un tale obiettivo non solo è impossibile, ma non è nemmeno auspicabile. Si tratta, invece, di procedere oltre. Di fare un passo avanti nella storia della libertà.

A partire da quell’esercizio “pio” che il pensiero svolge ponendo domande, ricercando la verità e il senso delle cose.
©Giangiacomo Feltrinelli Editore

La grande contrazione
I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto
Mauro Magatti

Collana: Campi del sapere
Pagine: 352
Prezzo: euro 25
 

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