“Lo spettro del voto a ottobre”, titolava domenica in apertura il Corriere della sera. Il sabato politico delle due fazioni del Pd e le esternazioni anti-euro di Berlusconi sembrano muoversi verso un’accelerazione, una soluzione che anticipi di un semestre il ricorso alla urne previsto dalla fine della legislatura. Qui ne ha scritto, invero con 24 ore d’anticipo, Peppino Caldarola. Che si è spinto anche più in là, chiedendosi se poi le elezioni anticipate non possano rivelarsi un bene: per la prima volta da venti’anni a questa parte l’Italia non sarebbe più chiamata a un referendum pro o contro il Cavaliere, ma una scelta pro o contro l’Euro.
E il ragionamento non è privo del suo fascino, epperò prima di una decisione simile bisognerebbe anche riflettere su quali possano essere i ricaschi di due mesi di campagna elettorale. Sorvolando poi sul dopo. Sarebbe proficuo un bel ripasso degli ultimi due governi: da Mastella e Turigliatto fino a Brunetta e Gasparri. Perchè si parla, e tanto, del disastro del governo Berlusconi (non senza ragione, per carità) ma ci si dimentica tropo facilmente di cosa fu il secondo governo Prodi. E non ci si sofferma su cosa potrebbe essere, a ottobre, un nuovo governo di centrosinistra dilaniato dalle divisioni interne e dai soliti problemi di coalizione. Con ogni probabilità il Cavaliere sarebbe spazzato via, il suo antieuropeismo, con ogni probabilità figlio dei soliti sondaggi, sembra davvero avere il respiro corto. Se persino i greci, che il default lo stanno vivendo sulla propria pelle, nel segreto dell’urna hanno scelta di non divaricare il proprio destino da quello di Bruxelles, figurarsi gli italiani.
Ma il punto non può essere solo questo. Lo scorso autunno, quando Giorgio Napolitano di fatto mise a segno la mossa che portò alla fine del governo Berlusconi – la nomina di Mario Monti a senatore a vita – e poi conferì al professore il compito di formare un nuovo governo, ne tracciò anche il percorso. E quel percorso prevedeva l’adempimento dei compiti previsti in quella famosa lettera della Bce per evitare che l’Italia fosse la prossima vittima eccellente della crisi.
Un bilancio in qualche modo lo ha stilato lo stesso Mario Monti al G20. Un bilancio in chiaroscuro, è inutile negarlo. Il presidente del Consiglio non ha escluso che Roma possa trovarsi nelle condizioni di dover inoltrare all’Europa una richiesta di aiuto. Un passaggio drammatico che sui nostri quotidiani, e sui media in generale, è passato quasi sotto silenzio (con Berlusconi al governo non sarebbe accaduto, è doveroso sottolinearlo). Ma che indica la gravità della situazione. L’Italia è tutt’altro che fuori dalle turbolenze. E con ogni probabilità negli ultimi tempi è venuta anche meno la spinta propulsiva che inizialmente aveva connotato il cosiddetto governo dei professori. Comincia ad affiorare una certa stanchezza e manca sicuramente – fatta eccezione per la ministra Elsa Fornero – quella audacia che invece dovrebbe caratterizzare un leader politico.
E siamo al punto. Forse è proprio questo scatto che adesso vorremmo dal presidente del consiglio. Che ci fornisse lui gli ultimi elementi per convincerci del tutto che andare alle urne a ottobre significherebbe perdere occasioni decisive. È un tecnico, Mario Monti, è vero. Ma talvolta lo è fin troppo. Si capisce che è abituato al consenso per accademia, senza sudare. Si vesta un po’ d’autorità. E tiri dritto. È il momento di accelerare. E anche di mettere a frutto l’esperienza acquisita in questi mesi. In fin dei conti sono davvero pochi gli italiani che hanno nostalgia del recente passato. Magari il Governo potrebbe anche procedere alla descrizione di un breve programma pubblico delle cose fatte, che non sono poche, e di quelle ancora da fare in questi mesi che ci separano dalla fine della legislatura.
Nessun partito, nemmeno quello dell’ormai antieuropeista Berlusconi, avrebbe mai il coraggio di staccare la spina al governo Monti. Al di là della propaganda politica, ciascun attore è ben consapevole che non c’è altra via d’uscita che seguire la cura e ingoiare la medicina fino in fondo. Non foss’altro che per il timore di essere poi sconfitti nelle urne perché additati come i responsabili del disastro. Però occorre un cambio di passo. Occorre essere meno timidi. Più sfrontati. E un po’ meno cattedratici. Biosgna guadagnarselo sul campo il consenso. Meno Giarda (non meno spending review, però…), più Fornero, insomma. In politica non basta essere i più bravi a fare i compiti per essere considerati i migliori. È fondamentale, certo, e per noi non ci sono dubbi. Ma serve anche altro per convincere gli italiani. Ed è ora che venga fuori. In modo da mettere a tacere il partito dei disfattisti.