«Abbiamo una settimana per salvare l’euro». Quante volte abbiamo sentito o letto frasi come questa, negli ultimi tre anni? Sono quasi 30 i vertici europei che sono stati organizzati per risolvere la peggiore crisi dell’Unione europea dalla sua nascita. Definirla solo una crisi economica o finanziaria non è solo è errato, ma anche controproducente. Le sofferenze che sta vivendo l’eurozona sono la naturale conseguenza della convivenza di 17 economie, 17 politiche, 17 interessi particolari diversi e 17 storie nazionali diametralmente opposte. Non sarà un vertice, l’ennesimo, a risolvere la situazione. E questa volta il tempo è davvero finito.
Non è colpa solo della Germania. Non è colpa solo della Grecia. E non è colpa dei mercati finanziari, degli “speculatori internazionali”, del Nuovo ordine mondiale o di un complotto guidato dai “poteri forti”. La crisi europea è figlia di una struttura incompleta, zoppa e intrinsecamente senza futuro. Quando ancora l’euro doveva nascere si era capito che un giorno si sarebbe arrivati a questo punto. Nel dicembre 2001 il presidente della Commissione europea, Romano Prodi, scrisse nero su bianco cosa sarebbe successo. «Sono sicuro che l’euro ci obbligherà a introdurre un nuovo set di strumenti di politica economica. È politicamente impossibile per ora proporli. Ma un giorno ci sarà una crisi e questi nuovi strumenti saranno creati», scrisse in una lettera al Financial Times. A più di dieci anni di distanza, aveva torto? No.
Ancora una volta, si sta cercando di tranquillizzare gli investitori chiamando a raccolta i leader europei. Cambiano le cancellerie, mutano gli esecutivi, saltano i governi, ma il risultato non cambia. Anzi, peggiora. Se un anno fa l’Italia era osservata con attenzione a livello internazionale per via della sua crescita anemica, del suo immenso debito pubblico e, soprattutto, per via dell’inquilino di Palazzo Chigi, oggi è parzialmente diverso. Con l’arrivo di Mario Monti l’Italia siede ai tavoli più importanti, organizza vertici quadrilaterali con le maggiori potenze mondiali e viene interpellata per decidere la linea programmatica dell’exit strategy europea. I problemi, oggi, sono due: uno a livello nazionale e uno sul piano comunitario. L’Italia non ha fatto i compiti a casa su consolidamento fiscale e crescita economica, come certificato dal G20. E l’Europa non ha una via d’uscita a questa crisi.
Il vertice europeo di fine mese dovrà decidere le sorti dell’euro. Questo è ciò che si continua a leggere sulle maggiori testate europee. Unione bancaria, garanzia comunitaria sui depositi bancari, project bond, più la volontà alla nascita di un piano per la crescita da circa 130 miliardi di euro, tanto preciso dal punto di vista verbale quanto vacuo da quello sostanziale. A oggi, c’è davvero poco sul tavolo. La Germania continua a non voler mutualizzare il debito dei Paesi meno virtuosi per evitare di ritrovarsi con problemi futuri. Quindi, niente apertura agli eurobond, invocati a gran voce da chi di debiti ne ha troppi. La Finlandia vuole maggiori garanzie sullo European stability mechanism (Esm), il fondo salva-Stati permanente da 500 miliardi di euro, per evitare che qualcuno possa fare il furbo prendendo i soldi senza mettere adeguate garanzie. Il Regno Unito, dopo il rifiuto del nuovo patto di bilancio Ue, il Fiscal compact, ha di nuovo ricordato all’Europa che la tassa sulle transazioni finanziarie, voluta da Berlino, Roma, Parigi e Madrid, non sarà mai appoggiata da Londra. E sul fronte monetario nulla di nuovo, anche se in tanti (Italia e Spagna su tutti) tirano la giacchetta di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea (Bce), in cerca di un sollievo per gli elevati tassi d’interessi sui titoli di Stato. Dopo gli sforzi, e i rischi, assunti dall’Eurotower nel corso del 2011, Draghi al massimo potrà concedere un taglio al tasso d’interesse o un’altra operazione di rifinanziamento a lungo termine (long-term refinancing operation, o Ltro, ndr) dopo quelle di dicembre e febbraio. Poi, sarà compito degli Stati membri decidere cosa fare dell’eurozona.
Dopo Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro, anche l’Italia potrebbe cadere. È questa la maggiore paura dei funzionari europei. Ma anche loro sanno che i margini negoziali per introdurre nuove misure sono troppo ridotti e il tempo, ormai, è quasi terminato. Come ha spiegato a Linkiesta un funzionario del Tesoro alcuni giorni fa «nel caso a fine settembre il rendimento dei titoli di Stato italiani a dieci anni fosse ancora a ridosso del 6% o superiore, le già serie difficoltà nel rifinanziamento italiano potrebbero diventare insormontabili». Se si dovesse arrivare a quel punto, diceva sempre il funzionario governativo, «è possibile che si avvii un programma di monitoraggio da parte di entità esterne, con un eventuale supporto finanziario per reggere l’urto del fly-to-quality e dei downgrade del rating sovrano». Chiaro il riferimento alla troika, ovvero Fondo monetario internazionale, Bce e Commissione europea, che già sta operando ad Atene, Dublino e Lisbona. E nel caso non bastasse ancora, via libera al riscadenzamento del debito, come anche lasciato intendere da Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).
Nella lunga intervista concessa ai principali quotidiani europei, il presidente del Consiglio italiano ha rimarcato che non è sua intenzione chiedere un sostegno finanziario internazionale. L’Italia, quindi, non è la Spagna, che è invece capitolata sotto il peso di un sistema bancario imbottito di crediti inesigibili legati a un mercato immobiliare drogato dal credito facile. Tuttavia, a ben leggere, Monti non ha chiuso le porte all’intervento della troika anche in Italia. «Nel futuro l’Italia non avrà bisogno di aiuti e se dovesse farlo vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato nel sistema», ha spiegato Monti. In altre parole, tralasciando il linguaggio cauto e diplomatico che ha sempre contraddistinto l’ex commissario europeo, se Roma dovesse chiedere aiuto non sarà colpa sua, ma di un apparato distorto. In pratica, l’Italia alzerebbe bandiera bianca a sua insaputa.
Un anno fa, il 17 giugno 2011, arrivò il primo warning sul rating sovrano italiano. Moody’s, una delle tre sorelle del rating, disse che Roma rischiava il declassamento perché troppo lenta nel processo di consolidamento fiscale resosi necessario con l’avvio della crisi europea. Arrivarono, fra gli scontri politici di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, rispettivamente presidente del Consiglio e ministro delle Finanze, due manovra economiche impopolari. La prima da quasi 25 miliardi di euro, la seconda da quasi 55 miliardi. Poi, per motivi prevalentemente di ordine interno, cioè di coordinamento governativo, e di credibilità internazionale, si giunse alla fine anticipata della legislatura di Berlusconi. Con il G20 di Cannes, a inizio novembre scorso, fu sancita la parziale capitolazione dell’Italia tramite la richiesta di monitoraggio da parte del Fondo monetario internazionale. Colpa dell’incapacità di riformare la propria struttura a causa di un legame di sangue fra la classe dirigente e un certo stile operativo, del tutto distorto, che sta emergendo tanto lentamente quanto inesorabilmente. Oggi, nonostante il cambio di governo, le cose non vanno meglio. Con un tessuto industriale soffocato da un peso fiscale senza paragoni in Europa e una società esausta, i rischi di una recessione ben peggiore delle previsioni aumentano di giorno in giorno, con il pericolo di avvitare il Paese in una spirale senza vie d’uscita.
«Se cade l’Italia, cade l’Europa». Con queste poche parole uno sherpa del G20 a Cannes spiegò a Linkiesta senza mezzi termini quale fosse una delle sue maggiori paure. Dopo sette mesi, i progressi sono stati assenti. In compenso, è arrivata la prima ristrutturazione del debito sovrano nell’eurozona, quella effettuata dalla Grecia nello scorso marzo. Non solo. Sono anche arrivate le richieste di aiuti di Spagna e Cipro. Nel mezzo, tante parole. Troppe. Le stesse che, a meno di sorprese, ci sentiranno nel prossimo Consiglio europeo.